SAN SEVERINO – Giacomo e Federica oggi sposi. ‘Jack’ Bonaventura, 31 anni, sei stagioni al Milan che si appresta a lasciare, si è sposato con la fidanzata storica Federica…
— Read on www.ilmattino.it/societa/gossip/giacomo_jack_bonaventura_calciatore_milan_sposa_federica_ziliani_comune_san_severino_marche_ultime_notizie_oggi-5394270.html
Magni: “Gigio vuol restare, ha rinunciato a tanti soldi per il Milan. Vi spiego la parata su Rugani”
Contro la Juventus era stato praticamente inoperoso per 77 minuti, poi Gianluigi Donnarumma ha deciso di vestire i panni di Superman e disinnescare con un riflesso mostruoso un colpo di testa di Rugani, impedendo allo juventino di segnare il 3-3. La redazione di MilanNews.it ha contattato Alfredo Magni, il primissimo allenatore di Gigio in rossonero. Con l’ex preparatore dei portieri di Brescia e Milan abbiamo parlato delle performance, della personalità e di quello che sarà il futuro del numero 99 del Diavolo.
Ci può spiegare tecnicamente la parata su Rugani?
“Impressionante. Gigio ha una reattività incredibile nonostante la sua grande struttura fisica e capisco che possa impressionare chi non ha avuto il privilegio di vederlo quotidianamente per anni per la facilità con cui compie queste parate. Dal punto di vista tecnico, parlando con linguaggio specifico, posso dire che lui è stato bravissimo a non ‘aprirsi’ con il corpo (a tener fermo le spalle, ndr), a non allontanarsi per creare squilibrio con la gamba esterna e a fare una ‘first’ (una prima spinta, ndr) da paura. E una parata da compiere vicino al corpo, spesso. è anche più complicata da gestire rispetto ad effettuarne una quando ci si può distendere completamente, perchè quando il pallone è così a ridosso devi essere molto bravo a non aprirti. Se anche il colpo di testa di Rugani fosse stato più incrociato l’avrebbe comunque preso, perchè aveva puntato bene la gamba esterna e da lì non si è mosso ed è stato velocissimo ad andare giù. Una grande parata che si aggiunge ad una serie già lunga“.
La crescita di Gigio è stata continua in questi anni e nella sfida contro la Juventus ha fatto ciò che devono fare i portieri delle grandi squadre: salvare le rarissime conclusioni che arrivano verso la porta.
“Sono d’accordo. Queste qualità si evidenziano con l’esperienza. Stiamo parlando di un ragazzo di 21 anni che ha già fatto oltre 200 partite. Gigio è stato precoce anche nell’apprendere come gestire con tranquillità le situazioni in porta. Non potrà che crescere con il tempo sia dal punto di vista tecnico che emozionale. A 16 anni appena compiuti giocò davanti a 90mila persone all’Allianz Arena: giocava con grande conoscenza, perchè erano situazioni provate quotidianamente in allenamento. E’ un processo normale di crescita il suo. Ciò che non è normale è che a 21 anni abbia già fatto ciò che ha fatto lui. E per la sfortuna di noi milanisti non ha ancora avuto la possibilità di giocare in Champions League, altrimenti staremmo parlando di un portiere ancora più grande. Sarà ricordata la vicenda di Gigio, ci renderemo conto tra molti anni di quello che sta succedendo con lui. Non è una cosa normale e nemmeno straordinaria, ma unica“.
C’è ancora qualcosa di Gigio che riesce a sorprenderla?
“Non mi sorprende nulla, conoscendolo benissimo. Quello che la gente non ha ancora ben chiaro è che lui è un professionista con la testa sulle spalle, ma non solo. E’ un ragazzo serio e determinato, sensibile e buono. Quello che lui fa è frutto della sua dedizione, oltre che del suo immenso talento. Un ragazzo di 21 anni può anche essere distratto. Invece lui, da quando venne con me per la prima volta a 14 anni fino ad adesso ha mantenuto umità e spirito di sacrificio, che lo contraddistinguono. Niente gli sarà precluso se continuerà a mantenere questa mentalità. Spero che le cose per il Milan vadano benissimo in futuro, in modo che la squadra torni a giocare palcoscenici più prestigiosi e che lui possa mettersi in mostra anche lì“.
Le vicende dell’estate 2017 con il tira e molla sul rinnovo di contratto e le conseguenti critiche e contestazioni, hanno ulteriormente forgiato il carattere di Donnarumma?
“Non credo. Lui è stato molto fortunato, perchè se non avesse avuto alle spalle una famiglia molto equilibrata alle spalle con grandissimi valori, a cui lui si è potuto aggrappare, non l’avrebbe superata tutta quella vicenda. In quel periodo in Italia in qualsiasi luogo non si parlava di altro che di Gigio. Senza tutto quel caos avrebbe probabilmente avuto delle performance migliori e avrebbe vissuto delle situazioni in maniera diversa. A livello personale, magari, quella situazione gli è servita per capire che non è detto che le persone si comportino allo stesso modo di come tu ti comporti con loro. E poi c’è una cosa che non mi piace che viene rinfacciata spesso a Gigio“.
Ovvero?
“Lui è un top player, che può sbagliare come tutti gli altri. Invece, quando sbaglia lui, gli viene sempre rinfacciato quanto guadagna. E questo mi dà enormemente fastidio“.
Tra un anno il contratto di Donnarumma scadrà e nel giro di giorni/settimane la questione rinnovo di contratto tornerà strettamente d’attualità: finirà con un prolungamento di contratto anche questa volta?
“Gigio per il Milan ha rinunciato a tanti soldi e se il Milan lo metterà in condizione di poter rimanere, penso che la sua volontà di restare sia chiara. Poi, chiaramente, non dipende solamente da lui. Ha già fatto in passato scelte forti, però ci sono tante variabili. Se non penso che prima o poi Donnarumma deciderà di provare un’altra esperienza lontano dal Milan? Non lo so, perchè dipende da persona a persona. In passato ha avuto questa possibilità, ma ha preferito rinnovare con il Milan. Essendo anche cresciuto rispetto a tre anni fa, sicuramente lui adesso si sente più responsabile nei confronti della squadra che lui ama sin da bambino. E poi si trova bene, non solo al Milan, ma a Milano in generale“.
Costacurta: “Il calcio è cambiato. Impostare conta più di marcare”
L’ex difensore del Milan: “Oggi certi interventi mi fanno mettere le mani nei capelli…”
G.B. Olivero4 luglio – 09:33 – MILANO
Il soprannome resiste: anche per i bimbi che ovviamente non l’hanno mai visto giocare se non su Youtube o nelle immagini d’archivio, Alessandro Costacurta è Billy.

Le caramelle, gli orsi e i telefoni: i migliori meme su Ibra
Ed è bello che sia così. Ma questa è una delle pochissime concessioni al passato: Costacurta guarda sempre avanti, gli succedeva in campo quando seguendo Sacchi modificò il suo modo di intendere il calcio e gli succede anche adesso, da osservatore attento e analista lucido. Però, pur comprendendo e apprezzando la svolta “giochista” del nostro calcio, Alessandro non nega che a volte certi interventi difensivi “mi fanno mettere le mani nei capelli”.
Costacurta, in Italia non è più così difficile segnare. Perché?
“Gli allenatori cercano difensori propositivi, che non significa che siano scarsi nella distruzione della manovra avversaria ma che tra le loro qualità principali ce ne sono altre. Pensi a Bonucci: è favoloso nell’impostazione, meno nella fase difensiva, ma è uno dei pochissimi difensori della A che giocherebbe in qualunque club del mondo. Oltre a Bonucci la Juve ha in rosa anche l’altro prototipo del difensore, ossia il marcatore classico: Chiellini ha sicuramente meno qualità tecniche, ma resta il miglior difensore d’Europa. Partendo da Leo e Giorgio, si va a cascata. Il Sassuolo, ad esempio, ha difensori che danno il meglio in fase di impostazione e questo vale per altre squadre. Il livello di tattica individuale dei giocatori è calato e al contempo gli allenatori stanno provando a fare un gol in più degli avversari e non a prenderne uno in meno. Il risultato di tutto questo è che in Italia si segna più che in passato”.
Il ruolo del difensore è cambiato sensibilmente negli ultimi anni?
“Assolutamente. Io esordii a 20 anni, adesso sarebbe più difficile. Ho maturato una certa fiducia in fase di impostazione intorno ai 30 anni, prima ero un difensore e basta. Ma il calcio è cambiato, Guardiola preferisce arretrare in difesa un centrocampista bravo piuttosto che schierare un difensore che non lo convince con i piedi. Negli anni Novanta le priorità erano diverse”.
Billy Costacurta, oggi commentatore di Sky, 54 anni. Lapresse
Il controllo dello spazio e della palla, praticamente un mantra, fanno passare a volte in secondo piano la vecchia e sana marcatura? Ripensi al gol di Suarez in Barcellona-Liverpool 3-0: perfino Van Dijk, uno dei più grandi difensori in attività, si perse completamente la marcatura facendosi attrarre dalla palla.
“C’è questo rischio, ma in allenamento si può e si deve migliorare. In quell’azione Van Dijk probabilmente ha la percezione di poterci arrivare comunque, accadeva anche a me quando mi sentivo molto in forma. Mi ricordo un insegnamento di Sacchi: mi diceva di non aspettare mai il movimento o il contro-movimento dell’attaccante, ma di andare a cercarlo. Molti difensori guardano la punta, ma poi restano fermi. Faccia caso a quello che succede sui cross: a noi era stato insegnato di andare a toccare l’avversario per sbilanciarlo, adesso lo fanno in pochi”.
D’altronde una volta il difensore sembrava completamente a suo agio dentro l’area. Adesso non è più così: magari non ha problemi a uscire e fare pressione, ma poi se deve controllare un uomo vicino alla porta iniziano i guai.
“Il problema è il concetto di marcatura a zona che spesso viene travisato. Difendere a zona significa che marchi chi entra nella tua zona, non che resti fermo lì. Chi arriva in terzo tempo, ad esempio, devi andare a prenderlo altrimenti come lo fermi? Noi del Milan in area eravamo più bravi e poi alzando la linea abbiamo migliorato il meccanismo di protezione della profondità. Adesso le difese vanno in difficoltà se lasciano metri alle loro spalle”.
L’uscita da dietro spesso genera problemi. È davvero sempre necessaria?
“Gli allenatori si nascondono dietro alla parola mentalità ed è anche comprensibile. Ma non tutti possono fare fraseggio nella loro area. Baresi a volte diceva: “Ci vengono a pressare? Bene, buttiamola là, sulle punte”. Noi avevamo Van Basten e Gullit, certo, ma l’idea è di fare qualcosa di utile che sorprenda gli avversari”.

Billy con Franco Baresi
Si è perso il gusto di non far tirare l’avversario? La super difesa del grande Milan o la BBC della Juve trasmettevano un certo godimento nell’impedire proprio la conclusione oltre che il gol.
“Ai miei tempi con i compagni c’era la gara a chi faceva più anticipi: io li contavo sempre e, se ne avevo fatti un buon numero, mi dicevano bravo. Adesso i difensori sono più preoccupati dall’evitare un tunnel, come fosse un’onta. E’ un approccio diverso, che però spiega molte cose”.
Teme che il concetto di marcatura si sia un po’ perso anche nei settori giovanili?
“Il rischio c’è. Ma il gioco va in quella direzione. Non dico che sia sbagliato, è un’interpretazione diversa. Lo spettacolo richiede certe caratteristiche. Io non sono contrario, però quando vedo certi errori in marcatura mi metto le mani nei capelli”.
In Italia sta accadendo ciò che è sempre accaduto in Spagna (e viceversa). Stiamo modificando la filosofia?
“Sì, sta cambiando la nostra mentalità anche per la richiesta che arriva dalla gente e dall’opinione pubblica. Tanti allenatori hanno quest’idea di calcio in testa, si cerca di aggredire alti anche a costo di concedere. Però difendere bene è sempre una bella cosa”.2Leggi i
commentiCalcio:
tutte le notizie
4 luglio – 09:33
Sinisa Mihajlovic: "Il mio sogno non è la Champions ma poter riabbracciare mio padre" | L'HuffPost
Sinisa Mihajlovic: “Il mio sogno non è la Champions ma poter riabbracciare mio padre”
— Read on m.huffingtonpost.it/amp/2019/02/20/sinisa-mihajlovic-il-mio-sogno-non-e-la-champions-ma-poter-riabbracciare-mio-padre_a_23673985/
Mihajlović su Arkan e la guerra in Jugoslavia – Il Post
Mihajlović su Arkan e la guerra in Jugoslavia – Il Post
— Read on www.ilpost.it/2016/04/01/mihajlovic-condo-sky/amp/
OFFICIAL STATEMENT

AC Milan confirms that Paolo Maldini, the club’s Technical Director, became aware of contact with a person who subsequently tested positive for Coronavirus and began to display symptoms of the virus himself. He was administered with a swab test yesterday, the result of which was positive. His son Daniel, a forward in AC Milan’s youth team who had previously been training with the First Team, also tested positive.
Paolo and Daniel are both well and have already completed two weeks at home without contact with others. They will now remain in quarantine until clinically recovered, as per the medical protocols outlined by the health authorities.
https://www.acmilan.com/en/news/club/2020-03-21/official-statement
AC Milan NOTA UFFICIALE

AC Milan comunica che il Direttore dell’Area Tecnica del Club Paolo Maldini, venuto a conoscenza di aver avuto un contatto con una persona positiva e avendo in corso sintomi da virosi, è stato sottoposto ieri a tampone che è risultato positivo al Coronavirus. Allo stesso modo il figlio Daniel, attaccante della Primavera rossonera aggregato alla Prima Squadra.
Paolo e Daniel sono in buone condizioni e, dopo aver già trascorso oltre due settimane nella propria abitazione senza contatti esterni, come previsto dai protocolli medico-sanitari prolungheranno la quarantena per i tempi necessari alla completa guarigione clinica.
https://www.acmilan.com/it/news/club/2020-03-21/nota-ufficiale
IL MILAN E L'EMERGENZA CORONAVIRUS
Disposta la chiusura di Casa Milan e dei centri di allenamento almeno fino al 3 aprile. Salute e sicurezza sono le priorità di tutte le iniziative
AC Milan comunica che, in ottemperanza a quanto disposto da Governo e Istituzioni, Casa Milan e i propri Centri Sportivi di allenamento (Milanello e Vismara), resteranno chiusi almeno fino al 3 aprile.
Il Club continuerà a monitorare gli sviluppi della pandemia applicando con il massimo scrupolo le disposizioni delle autorità governative, delle istituzioni sportive e di quelle sanitarie per dare la massima priorità alla salute e sicurezza dei propri dipendenti, tesserati e collaboratori.
AC Milan continuerà a garantire il completo sostegno e il massimo supporto su tutti i fronti per la lotta al Covid-19, attraverso donazioni e campagne di sensibilizzazione, per sostenere i propri tifosi e le loro famiglie e aiutarli in questo momento difficile, ricambiando così la loro immutata e straordinaria passione verso il nostro Club.
https://www.acmilan.com/it/news/club/2020-03-20/il-milan-e-lemergenza-coronavirus
Milan, la solitudine di Maldini, Pioli e dei tifosi – La Gazzetta dello Sport – Tutto il rosa della vita
Maldini, Pioli, i tifosi: quanta solitudine questo Milan
Paolo senza Boban deve decidere se restare o abbandonare. Solo è pure il tecnico, con l’ombra di Rangnick che si allunga sempre più su di lui. E soli sono i supporter rossoneri senza neppure più uno stadio dove sfogarsi
Massimo Oriani@massimooriani9 marzo – 11:56 – MILANO
Albert Einstein parlava di solitudine penosa in gioventù ma deliziosa negli anni della maturità. Paolo Maldini ne ha solamente 51, non è più un ragazzino ma nemmeno arrivato al punto da poterla apprezzare in quanto tale, specialmente se ti avvolge quando più avresti bisogno di una spalla, di qualcuno con cui condividere le pene. Come quell’1-2 col Genoa rimbombato ancor di più nella pancia di un San Siro vuoto e assordante al tempo stesso.

San Siro vuoto durante Milan-Genoa di ieri. GettyCommenta per primo
Paolo è imperturbabile, capitano di mille battaglie, ma in campo sapeva sempre cosa fare. Comandava con la voce e con i gesti, con la testa e con i piedi. Era il faro che conduceva in porto il vascello rossonero, le tempeste gli facevano un baffo. Ora naviga in acque tempestose senza un primo ufficiale di coperta a bordo di quella che somiglia più a una scialuppa di salvataggio che a una portaerei. Domenica nel deserto del Meazza non c’era. Era a casa con la febbre, malanni di stagione, niente coronavirus, tranquilli. Ma anche se ci fosse stato, sarebbe stato dannatamente solo. Coi suoi pensieri, senza la spalla Boban, uno che come lui ha vissuto il campo, il Milan – quello vero non l’attuale brutta e sbiadita copia – che lo ama visceralmente, l’ha nell’anima prima ancora che nel cuore.
Maldini con Stefano Pioli. Lapresse
SCELTE
Eppure non voleva. Era stato restio, per tanto tempo. Aveva capito che tenersi alla larga dal “pasticciaccio brutto” alla cinese era cosa buona e giusta. Non era riuscito a tentarlo Silvio Berlusconi, non ci era riuscito Adriano Galliani. Poi ha ceduto all’attuale proprietà, conscio che servisse un milanista per non cancellare ogni ombra di quello che è stato, di un Impero caduto ma con potenziale per rialzarsi. Almeno così credeva. Invece si è ritrovato solo. Senza neppur essere l’unico. Una solitudine in compagnia, contraddizione in termini ma l’istantanea di questo Milan. Solo era Ivan Gazidis sulle tribune di San Siro, ad ascoltare le urla genoane, coltellate profonde a un progetto che non decolla, non può decollare in questo mare magnum di sconforto, confusione e mancanza d’unità d’intenti. In questo Milan delle due anime. Forse alla fine ne resterà una sola, basta sia quella giusta.
SOLO
Solo. Eccola che riaffiora, prepotente e invadente, quella parola che ferisce. Solo è pure Stefano Pioli, condottiero senza scudo. Attorno a lui si è creato il vuoto. Ha perso Boban, potrebbe perdere Maldini, sulla sua testa aleggia il fantasma di Rangnick, se è vero – come sostiene lo stesso Zvone – che l’allenatore è stato ingaggiato sin da dicembre. Difficile trasmettere qualcosa ai tuoi ragazzi quando sai che il tuo progetto è un castello di carte che verrà abbattuto dal vento del Nord, in arrivo dalla Germania. Impensabile credere, ingenuo illudersi, che il Milan visto ieri a San Siro non sia il prodotto di quanto sta accadendo in via Aldo Rossi. Si può essere soli in mezzo alla folla. A contare non è il numero delle persone che ti stanno accanto ma quello di chi lo fa proteggendoti il fianco. Quello di Pioli oggi è scoperto e come in tutte le grandi battaglie della storia, è impossibile vincere quando non lo proteggi.
TIFOSI
Soli lo sono anche i tifosi del Milan. Nemmeno più il conforto delle lamentele da “milanès piangina”, quella condivisione del dolore che lo fa sembrare più sopportabile. Allo stadio non ci si può andare, al bar meglio di no, e se capita a un metro di distanza, quel che basta per farti sentire isolato ancor di più. Con chi te la prendi al gol di Pandev? E al raddoppio di Cassata, tutto fuorché dolce se hai il Diavolo nel cuore? Affiora la nostalgia per chi ha vissuto l’epopea del Grande Milan. Ma almeno può affogare la delusione nei ricordi. Chi ha meno di 25 anni soffre ancor di più, è ancora più solo perché nemmeno quel rifugio gli è dato. Soli. Eppure mai quanto Maldini. Che ora ha davanti due strade: la prima lo porterebbe lontano da questo deserto dell’anima ma anche da quella maglia che porta sulla pelle. L’altra rischia di essere un vicolo cieco, quantomeno oggi è un buio viale dove procedere a tentoni. Nella speranza di non cadere in qualche buca. Rialzarsi, da soli, non è mai facile.
BACK TO TRAINING AT MILANELLO
The Rossoneri returned to training after a rest day and are awaiting the resumption of official competitions
Training resumed this morning at Milanello after the boys were granted a rest day yesterday. Today, the team met up as usual for breakfast before heading to the changing rooms to start the day’s work. Paolo Maldini and Frederic Massara also attended training at Milanello.
The squad began training in the gym with some muscle activation before heading out onto the pitch to continue their warm-up with rondos in a small space behind the goals.
TAKE A LOOK AT THE PHOTOS FROM TRAINING TODAY
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
.jpg)
At the end of the first part of the session, the group went through a series of high intensity technical exercises, followed by possession drills and a technical-tactical game played on a small pitch. The lads focused on shooting to finish before returning to the changing rooms.
The programme for tomorrow, Friday 6 March, involves training in the morning after meeting at Milanello for breakfast.
https://www.acmilan.com/en/news/training/2020-03-05/back-to-training-at-milanello
Io, il Milan, la Fiorentina e un desiderio: “Chiederò la maglia a Ibra”
Patrick Cutrone sfida per la prima volta la squadra che lo ha fatto crescere e debuttare in serie A. È l’occasione per raccontarsi e spiegare perché pensa di aver già vissuto tre vite…
Fabrizio Salvio22 febbraio – 12:04 – MILANO

L’incontro comincia sotto infausti presagi. Patrick Cutrone arriva all’appuntamento in ritardo, stanco e nervoso per il prolungarsi delle cure mediche a una caviglia malconcia. Fa in tempo a sedersi e la situazione peggiora: Andrea e Nicolò, gli amici del cuore venuti a Firenze per passare una settimana con lui, gli comunicano giulivi di aver dato da mangiare al cane Arno (sì, il nome è un omaggio al fiume che bagna la città) prima di uscire di casa. “Ma no, che avete fatto?! Aveva già mangiato, ha due mesi, deve fare pasti regolari se non diventa troppo grosso, anzi grasso!”. Ahia.Commenta per primo
Stai a vedere che oggi finisce male. Invece improvvisamente il centravanti arrivato a gennaio alla Fiorentina torna il ragazzo che tutti hanno sempre descritto: solare e alla mano. E proprio da qui, dalla presa di coscienza di sé, parte questa intervista.SERIE AFiorentina0-01°TMilan
Cosa è rimasto del Patrick di Parè, la frazione di Colverde, provincia di Como, dove è cresciuto?
“Tutto. È rimasto il Patrick sorridente, generoso, disponibile con tutti. In campo, lo stesso: sono quello di una volta, orgoglioso di giocare a calcio”.
Ha 22 anni appena. Si rende conto di aver già vissuto tre vite? Milan, Inghilterra, il ritorno in Italia. Quando guarda i suoi amici e coetanei, invidia la loro spensieratezza di studenti o dice: rispetto a voi sono già uomo?
“Io mi ritengo molto fortunato: faccio la cosa – non riesco a chiamarlo lavoro – che amo di più al mondo. Uno può pensare alla noia degli alberghi e dei ritiri, ma anche questo è il bello del calcio. Io ne sono innamorato pazzo”.
Rimpianti? Avrebbe potuto studiare e divertirsi di più e meglio?
“Studiare, ho studiato. Ho preso il diploma allo Scientifico. I miei hanno battuto molto sulla necessità che avessi un pezzo di carta in mano. Al momento pensi “che palle”, poi capisci che hanno ragione. Non è bello far vedere che non hai una cultura, non sei in grado di dire due parole insieme”.
Oggi ha tempo e voglia di leggere un libro?
“Sono sincero: adesso ne sto leggendo uno. Me l’ha regalato la mamma della mia ragazza. Si intitola Momenti di trascurabile felicità, parla di quel che ti può capitare nell’arco di una giornata e metterti di buon umore, rasserenarti, e tu neanche te ne accorgi. Mi sta prendendo”.
Ricorda il suo primo pallone?
“Sì. In realtà me lo ricorda mia nonna, che mi portava al parco a giocare. Mi racconta che quella palla era più grande di me, ma che io non avevo paura di calciarla”.
E le prime partite?
“Nel giardino di casa di Andrea, alle sue feste di compleanno. Il padre aveva piazzato una porticina ed erano tornei infiniti, due contro due”.
E come esultava, allora, quando faceva gol?
“Un po’ sfottevo Andrea, che giocava contro. Più avanti, nella squadra dell’oratorio, mi facevo abbracciare da tutti i compagni oppure correvo intorno al campo”.
Chi è stato il suo idolo calcistico?
“Non ne avevo uno in particolare. Mi piaceva un sacco Van Persie, fenomenale. Poi Drogba, Inzaghi… Di Van Basten ho visto i video, perché me ne hanno parlato tanto”.
A 8 anni arriva al Milan dopo un provino all’Inter in cui segnò otto gol. Ha mai saputo perché i nerazzurri non la presero?
“Quel giorno eravamo tantissimi. Alla fine mi dissero ‘Ti richiameremo sicuramente’, invece non seppi più nulla. Poi feci un provino al Monza, e quella soluzione mi stava bene. Ma quando arrivò la chiamata del Milan non ci pensai un attimo. Al provino segnai quattro gol: bastarono per essere preso. In realtà mi avevano già preso”.
Chi è stato il suo primo allenatore in rossonero?
“Roberto Lo Russo. Sono più legato a Luigi Rampoldi, che mi ha scoperto e portato al Milan. Lo sento ancora. Ha una certa età, gli voglio un sacco di bene e, più che parlare di me, voglio sapere di lui”.
A chi altri deve dire grazie nel calcio?
“Tutti gli allenatori che ho avuto mi hanno aiutato a crescere, in qualsiasi modo lo abbiano fatto. Walter De Vecchi e Italo Galbiati sono stati molto importanti. Al primo anno di Milan De Vecchi mi diceva: ‘Per calciare meglio la palla, devi posizionarti in maniera diversa col corpo. Fai come ti dico e vedrai che sarà tutto diverso’. Tempo due mesi e colpivo il pallone come mai prima”.
Com’è andata davvero con Rino Gattuso, che l’ha allenata in prima squadra?
“È stato un bel rapporto. Siamo due persone vere, che si dicono le cose in faccia. Una volta, a Bologna, mi sostituì e borbottai: il giorno dopo gli chiesi scusa. L’ultimo periodo mi fece giocare di meno, ma non mi va di parlarne. Ha dimostrato di tenerci a me, in allenamento mi stava dietro, mi diceva dove migliorare. Su questo non posso dir niente”.
Esordio in A il 21 maggio 2017: se chiude gli occhi qual è la prima cosa che le viene in mente?
“Era l’ultima in casa di campionato, contro il Bologna. Lo stadio era pienissimo. Era da un po’ che aspettavo di esordire. Sul 2-0 ho iniziato a sperare, ma mister Montella non mi faceva scaldare. Quando mancava poco alla fine mi disse: “Vai, preparati”. Mi sono emozionato un sacco. Non vedevo l’ora di entrare e spaccare il mondo. Iniziai a correre su e giù lungo la linea laterale, avrò fatto 6 chilometri in dieci secondi. Entrai che mancava pochissimo alla fine, ma bastò per rendere quei momenti indimenticabili: giocavo finalmente nello stadio dei miei sogni, con tutta quella gente che mi guardava”.
Stasera, per la prima volta da quando lo ha lasciato, giocherà contro il suo Milan: cosa vuol dire?
“Forse è meglio che succeda a Firenze, piuttosto che a San Siro. È una squadra cui tengo ancora tantissimo. Sarà bello incontrare i miei vecchi compagni e i tifosi, che mi hanno sempre fatto sentire il loro affetto”.
Perché, secondo lei? Solo perché è cresciuto con la maglia del Milan addosso?
“Io penso che i tifosi rappresentino una gran parte del calcio. Senza di loro sarebbe tutto meno bello. Perciò ho sempre cercato di dar tutto quello che avevo: per la maglia e per loro che ti sostengono”.
A fine partita chiederà la maglia a Ibra?
“Sarebbe bello. È Ibra, non c’è bisogno di dire altro”.
Perché ha detto sì alla Fiorentina?
“È una squadra che mi ha sempre affascinato per la sua storia, per i campioni come Batistuta che ci sono passati, per la sua tifoseria appassionata”.
Cos’ha Vlahovic più di lei e che cosa ha lei più di lui?
“Secondo me ci completiamo. Io attacco di più lo spazio, lui viene più incontro. Mi piacerebbe giocarci insieme”.
Cosa si porta dietro dall’Inghilterra?
“Sono cresciuto a livello umano e professionale. Ho conosciuto una nuova cultura, nuovi usi, ho migliorato di parecchio il mio inglese, che adesso parlo discretamente. A livello calcistico ho imparato un nuovo modo di giocare, con ritmi di gioco diversi, più intensi, dove si attacca molto di più, senza paura di allungarsi. In Premier non si indietreggia, si avanza”.
Perché al Wolverhampton non è andata bene?
“Molti dicono che non mi sia ambientato. Falso. La verità è che l’allenatore, Espirito Santo, aveva il suo gruppetto di fedelissimi, quelli con cui era stato promosso, dal quale non derogava. Era fissato sui suoi undici, e gli altri non li vedeva; non soltanto me, tutti. Ho giocato tre partite da titolare e segnato due gol, ma non era cambiato niente. A quel punto son voluto andare via”.
Il suo autoritratto di calciatore.
“Impegno. Dedizione. Fiuto del gol”.
Un difetto che ti riconosci e che sta lavorando per eliminare? Gattuso diceva che deve proteggere di più la palla.
(sorrisino) “Ma io credo di saperlo fare… Poi certe volte è dovuto anche al fatto… Non so come spiegare”.
Ci provi.
(sembra cercare le parole giuste, dall’esterno gli consigliano di non fare polemiche, la risposta che segue è perciò politicamente corretta) “Ho qualche lacuna, che posso colmare con la personalità e il lavoro”.
Il suo autoritratto di uomo.
“Vero. Generoso. Testardo” (gli amici presenti: “E permaloso”).
È permaloso?
“Quando perdo e mi prendono in giro. Impazzisco”.
Ha detto una volta: papà mi sopporta. Quando diventa insopportabile?
“Dopo una sconfitta, appunto. Lui capisce, e lascia passare un’oretta prima di chiamarmi. Poi usa le parole giuste per calmarmi”.
Qual è la cosa detta sul suo conto che più la fa incazzare?
“Quando dicono che sono solo uno da area di rigore”.
Un altro difetto che si riconosce?
“Mi arrabbio troppo con me stesso”.
In cosa è testardo?
“Sulle mie decisioni. Quando ne prendo una, non cambio mai idea”.
E se poi si accorge di aver sbagliato, è capace di chiedere scusa?
“Sì. Anche a me stesso”.
Come le piace spendere i suoi soldi?
“In vacanze al mare. Ne ricordo una a Dubai: spettacolare. E poi gli orologi: ne ho soltanto due, ma preziosi”.
Metta in fila i tre centravanti più forti del mondo…
“Lewandosvski. È il più forte per la tranquillità, la naturalezza con cui fa le cose. Higuain: gioca di squadra, facilità di smarcamento, di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Infine Lautaro: ci assomigliamo un po’ per determinazione e spirito di sacrificio. E poi c’è Ibra, ma lui è fuori categoria. Lui sa e può far tutto”.
Cutrone, cos’è il gol per lei?
“Una dipendenza. Perciò spero di farne tanti”.
Gioielleria Milan: Maldini jr, bomber Colombo, il gigante Jungdal, ecco i Giunti boys
I rossoneri promossi in Prima Divisione dopo un campionato dominato: tutti i nomi da tenere d’occhio per il futuro
Marco Calabresi22 febbraio – 18:40 – MILANO
Che il Milan, con la Primavera, volesse subito tornare nella categoria che le compete, si era capito già dal mercato estivo. In rossonero sono arrivati due attaccanti come il brasiliano Luan Capanni (ex Lazio, che con Inzaghi aveva già esordito in Serie A) e l’ex Catania Emanuele Pecorino. Tra campionato e Coppa Italia hanno segnato 17 gol in due (nove Pecorino, otto Capanni), ma nessuno dei due era in campo dal 1′ nella partita contro la Spal.Commenta per primo
In panchina, invece, è rimasto Federico Giunti: tornato al settore giovanile dopo essere arrivato fino alla Serie B (Perugia), lo scorso anno da subentrato all’esonerato Alessandro Lupi non era riuscito a evitare la retrocessione alla fine di una stagione disgraziata, ma è rimasto in sella e ha riportato il Milan nella Serie A della Primavera.SERIE AFiorentina22/0220:45Milan

Daniel Maldini ha esordito in serie A nei minuti finali contro il Verona. Ansa
CONFERME
—
In attacco, nel Milan che ha battuto 3-1 la Spal conquistando aritmeticamente la promozione con quattro giornate di anticipo, c’erano Giacomo Olzer, Riccardo Tonin e Lorenzo Colombo, tutti già nel settore giovanile rossonero. Proprio Colombo, che già nel 2018 fece parte sotto età della spedizione della Nazionale Under 17 all’Europeo, è stato il “nuovo acquisto” delle ultime settimane: cinque gol nelle ultime quattro partite dopo la frattura al piede. E’ nato a Vimercate, Colombo; gli altri due, invece, arrivano da nord-est. Da Rovereto Olzer, dalla provincia di Vicenza (nato ad Arzignano, cresciuto a Brogliano) Tonin.
ASSENTI PRESENTI
—
Diciassette gol in due li hanno segnati anche Daniel Maldini e Marco Brescianini, che non erano al Vismara a festeggiare con i compagni. Cause di squadra maggiore: Stefano Pioli li ha convocati per la trasferta di Firenze e uno, il figlio d’arte, ha pure già esordito in Serie A contro il Verona e – dopo Milan-Juve di Coppa Italia – ha regalato anche la sua maglia al collezionista Gigi Buffon. Brescianini, invece, è nato a Calcinate (nello stesso paese di Belotti), e ha da pochi mesi rinnovato il suo contratto fino al 2024, un anno in più rispetto all’accordo con Alessandro Sala, altro centrocampista da seguire. Brescianini è un classe 2000, gioca in Primavera da fuoriquota e si pensava potesse già andare in prestito in B a gennaio: alla fine è rimasto a Milanello, il viaggio si farà la prossima stagione. A proposito di fuoriquota, è anche il Milan di Emanuele Torrasi, il più grande di tutti: è nato nel 1999, ma la fortuna gli ha voltato le spalle, con una serie di infortuni che il centrocampista ha superato.
Matteo Soncin, classe 2001. Lapresse
PORTIERE
—
E chissà cosa ne sarà di Matteo Soncin, portiere 2001 che per talento segue le orme di Gigio Donnarumma e Alessandro Plizzari, anche se la struttura fisica non è la stessa. La sua porta, grazie anche alla difesa guidata da Tommaso Merletti, è ovviamente quella meno battuta di tutto il campionato Primavera: soli 13 gol subiti, neanche l’Atalanta campione d’Italia in Primavera 1 sa fare meglio. Con Soncin si è alternato il danese Jungdal, alto quasi due metri e preso dal Vejle: oggi è diventato maggiorenne, per lui festa doppia.
COPPA ITALIA
—
Il Milan, in questa stagione, una partita l’ha persa, in Coppa Italia al Franchi contro la Fiorentina. Aveva superato tre turni, e tutti in trasferta, eliminando Sampdoria, Spezia e il Torino che lo scorso anno era arrivato fino alla finale. A vincere il trofeo erano stati i viola, anche quest’anno arrivati all’atto decisivo: affronteranno il Verona, che è nel girone del Milan in campionato, e a cui i rossoneri il 9 novembre hanno fatto cinque gol.
Milan, esordio in Serie A per Matteo Gabbia: “La dedico ai miei nonni, sono abbonati”
Matteo Gabbia non dimenticherà mai Milan-Torino, e l’esordio in Serie A. Il giovane difensore ha una dedica speciale per questa serata memorabile: “È il coronamento di un sogno, ringrazio tutti i miei compagni e lo staff. Mi faceva molto piacere dedicare questa partita ai miei nonni che hanno l’abbonamento a Milanello, sono molto felici”
MILANCALCIO 18 FEBBRAIO 2020 0:13 di Marco Beltrami

Una serata che Matteo Gabbia non dimenticherà mai. Il classe 1999 ha fatto il suo esordio in Serie A in Milan-Torino, dopo aver collezionato i primi minuti in rossonero in Coppa Italia. Pioli lo ha gettato nella mischia dopo l’infortunio di Kjaer, e alla luce del rifiuto di entrare di Musacchio per un presunto problema al polpaccio. Buona prestazione del giovane talento che nel post-partita ha dedicato la sua prima uscita campionato ai nonni
Milan, esordio per Matteo Gabbia in Serie A contro il Torino
Nel post-partita Matteo Gabbia ha raccontato le sue emozioni ai microfoni di Sky Sport. Sorriso smagliante per il giovane difensore che ha collezionato un tempo, partecipando al successo della formazione rossonera. Questa la sua dedica nell’immediato post-partita: “È il coronamento di un sogno, ringrazio tutti i miei compagni e lo staff. Mi faceva molto piacere dedicare questa partita ai miei nonni che hanno l’abbonamento a Milanello, sono molto felici”.
Gabbia ha parlato così delle emozioni dell’esordio in Serie A con il Milan: “Cosa ho pensato al momento del cambio con Kjaer? Ho pensato che finalmente fosse arrivata un’occasione, ero tranquillo e non ero preoccupato perché avevo lavorato bene tutti questi mesi. E una volta che entri in campo quello che fai dipende da te, ringrazio anche Romagnoli che mi ha aiutato. Ibra mi ha fatto i complimenti, non è di tante parole ma le sue valgono tanto”.
La crescita di Gabbia e la voglia di giocare titolare
Una battuta sulla sua crescita e sulla possibilità di conquistare una maglia da titolare in futuro nel Milan: “Cerco di rubare il massimo da Romagnoli, da Musacchio e da Kjaer: sono più grandi di me, hanno più esperienza e da loro posso imparare. Poi guardando al passato ho visto giocatori come Maldini, Nesta e Thiago Silva, cerco di rubare qualcosina anche a loro. Vediamo, c’è la settimana e ci saranno le decisioni del mister. Speriamo di affrontare altre notti così, con i piedi per terra”.
continua su: https://www.fanpage.it/sport/calcio/milan-esordio-in-serie-a-per-matteo-gabbia-la-dedico-ai-miei-nonni-sono-abbonati/
L’importanza di chiamarsi Maldini: tutte le grandi dinastie del calcio mondiale
Con il debutto di Daniel hanno giocato in serie A tre generazioni diverse: un record condiviso con i Cudicini. E all’estero…
Giuseppe Pastore@gippu13 febbraio – 10:23 – MILANO

Cesare non aveva potuto assistere dal vivo al debutto di Paolino. Il suo ruolo di vice-ct della Nazionale, un passo dietro Enzo Bearzot, lo costrinse a restare a casa per guardare Inter-Atalanta a San Siro, in una Milano asserragliata nella morsa del gelo.Commenta per primo
Ma il gennaio del 1985 era destinato a passare alla storia anche per la prima delle 902 partite da professionista di Paolo Maldini, di cui il papà ebbe notizia ascoltando “Tutto il calcio minuto per minuto”: stava guidando su Viale Caprilli e pensò bene di accostare, per evitare pericolosi sbandamenti dovuti all’emozione. Trentacinque inverni dopo Paolo è stato testimone oculare dalla tribuna autorità del battesimo del fuoco di Daniel, gettato nella mischia da Pioli nei minuti di recupero di Milan-Verona. È riuscito a toccare un solo pallone, di testa, su un corner battuto male, ma i suoi tre minuti sono passati alla storia del calcio italiano: è la prima volta che un giocatore italiano veste gli stessi colori di suo padre e di suo nonno.
I MALDINI
—
Breve ripasso di storia per i più giovani: Cesare Maldini ha indossato il rossonero per 412 partite dal 1954 al 1966, diventando il 22 maggio 1963 a Wembley il primo calciatore italiano ad alzare da capitano una Coppa dei Campioni, dopo il 2-1 al Benfica. Paolo è riuscito a superarlo in presenze e vittorie, diventando – con 26 trofei – il calciatore italiano più vincente di tutti i tempi: quando ha smesso il Milan ha ritirato la maglia numero 3, onore toccato in passato solo alla 6 di Franco Baresi. Per il 18enne Daniel non sarà facile essere all’altezza del papà e del nonno: ma da qualche parte bisogna pur iniziare, e lui ha iniziato con due minuti nella bagarre di valore inestimabile. La prima presenza ufficiale segue l’ampio minutaggio concessogli in estate da Marco Giampaolo nell’International Champions Cup; la sua Primavera, dopo la balorda retrocessione dell’anno scorso, sta dominando la seconda divisione anche grazie ai suoi sei gol e quattro assist in nove partite. Per il momento ha scelto un umile 98, sognando magari di spolverare quel numero di maglia custodito in una teca dall’estate 2009.

Fabio Cudicini e Carlo Cudicini.
I CUDICINI
—
I Maldini sono la seconda famiglia italiana a vantare tre generazioni con almeno una presenza in serie A. I primi, anche loro fortemente legati al rossonero, sono stati i Cudicini. Nonno Guglielmo giocò otto partite in serie A con la Triestina dal 1929 al 1934, le ultime cinque in compagnia di Nereo Rocco, futuro allenatore di suo figlio Fabio. Leggerino ma tecnico, soprannominato “il ballerino”, Guglielmo era un terzino che per la sua qualità fu a volte sfruttato anche in attacco. Morì nel 2007 nella sua Trieste, il giorno dopo il suo 104° compleanno. Fabio, altissimo (1 metro e 91) per l’epoca, ribattezzato “il Ragno Nero” per la tinta unita della sua divisa di gioco che richiamava il grande Jascin, giocò a lungo con Udinese, Roma e Brescia ma si lasciò gli anni più belli per il finale, approdando al Milan già ultra-trentenne: uno scudetto, una Coppa Campioni vinta grazie alle sue prodezze in semifinale a Manchester, una romanzesca Intercontinentale vinta in Argentina e una coppa Italia vinta nel 1972 all’ultima partita in carriera. Carlo invece conobbe il rossonero già da adolescente, debuttando addirittura in Champions League negli ultimi minuti di un Porto-Milan del 1993 per sostituire Sebastiano Rossi, ma non gli riuscì mai di esordire in serie A. L’unica presenza in campionato con la maglia della Lazio, da terzo portiere della stagione 1996-97, ebbe connotati eroici degni dei due antenati: subentrato al 4’ per sostituire l’espulso Marchegiani, nel finale si ruppe il crociato anteriore del ginocchio destro in uno scontro con Bisoli ma rimase stoicamente in campo perché Zeman ha finito i cambi e i portieri. Purtroppo la sua stagione finì lì, come la sua esperienza biancoceleste: trovò più fortuna in una lunga e brillante esperienza in Premier League con Chelsea e Tottenham.

Da sinistra: Marquitos, Marcos Alonso Pena e Marcos Alonso Mendoza.
GLI ALONSO
—
E all’estero? Le tre generazioni di Alonso non hanno una maglia in comune come i Maldini, ma hanno comunque scritto pagine importanti sia in Spagna che nel resto d’Europa. Iniziamo dal capostipite Marquitos (all’anagrafe Marcos Alonso Imaz), otto anni da difensore centrale nel Real Madrid dal 1954 al 1962, con quattro finali di Coppa Campioni disputate e anche un gol nella prima, contro il Reims nel 1956. Suo figlio Marcos Alonso Pena si è notevolmente discostato dalla tradizione paterna, vestendo le maglie delle arci-rivali Barcellona e Atletico Madrid: il suo unico assalto alla “Orejona” (come chiamano in Spagna la coppa dalle grandi orecchie) finì nella tragedia sportiva del 7 maggio 1986, quando a Siviglia il Barça si fece ipnotizzare dalla Steaua Bucarest e in particolare dal suo baffuto portiere Duckadam che parò quattro rigori su quattro, l’ultimo dei quali proprio ad Alonso. Suo figlio Marcos Alonso Mendoza ha invece seguito le orme del nonno, anche se ha all’attivo una sola presenza ufficiale con la prima squadra del Real Madrid: lo ricordiamo meglio a Firenze, poderoso terzino sinistro dal 2014 al 2016, mentre adesso gioca da quattro stagioni al Chelsea.

Da sinistra: Tomas Balcazar, il “Chicharo” Hernandez e il “Chicharito” Hernandez.
GLI HERNANDEZ
—
Caso più unico che raro è quello della famiglia Hernandez che ha mandato tre generazioni ai Mondiali con la casacca del Messico. L’ultimo e anche il più famoso è il “Chicharito” Javier Hernandez, ex Real Madrid e Manchester United, presente a Sudafrica 2010, Brasile 2014 e Russia 2018. Ha segnato almeno un gol in ogni edizione e deve il soprannome a suo padre Javier Hernandez Gutierrez, detto “chicharo” (pisello) per gli occhi verdi, numero 19 del “Tricolor” ai Mondiali casalinghi del 1986 ma mai impiegato neanche per un minuto. Il nonno materno era invece Tomas Balcazar, che nel Mondiale 1954 mise insieme due presenze e un gol contro la Francia – la stessa squadra a cui suo nipote avrebbe fatto gol nel 2010.

Da sinistra: Francisco Gento, Paco Llorente e Marcos Llorente.
I LLORENTE
—
Non c’è nulla di paragonabile alla dinastia Llorente, che vanta ben cinque giocatori diversi nell’album di famiglia del Real Madrid: l’ultimo è stato il centrocampista Marcos, addirittura in gol nella finale del Mondiale per Club 2018 contro l’Al-Ain (oggi gioca nell’Atletico Madrid). Suo padre è Paco Llorente, sette anni nel Real di fine anni Ottanta, quello della “Quinta del Buitre” che vinse campionati a ripetizione ma mai la Coppa dei Campioni, incassando una formidabile ripassata a San Siro dal Milan di Sacchi nella notte del 5-0, in cui aveva indossato la maglia numero 11 senza lasciare traccia. I tifosi madridisti ricordano con più affetto una sua grande partita a Porto, quando aiutò il Real a ribaltare il risultato e qualificarsi ai quarti entrando dalla panchina e servendo due assist a Michel. Ma Paco (che aveva un fratello, Julio, da oltre 400 partite in Primera Division e due stagioni al Real dal 1988 al 1990) altri non è che il nipote di Francisco Gento, fuoriclasse all’altezza del Grande Real di Puskas e Di Stefano che si aggiudicò le prime cinque edizioni della Coppa dei Campioni dal 1956 al 1960. E, a complicare ulteriormente le cose come in una telenovela spagnola, aggiungiamoci anche il quinto parente acquisito: Paco Llorente è infatti il genero di Ramon Grosso, attaccante per dodici stagioni alle dipendenze di Santiago Bernabeu, dal 1964 al 1976, con sette “scudetti” e una Coppa dei Campioni. Se la stirpe proseguirà, vi terremo aggiornati.
Maldini a Milan TV: “Giurerei di nuovo fedeltà ai rossoneri”
In occasione del suo cinquantesimo compleanno, Maldini ha parlato ai microfoni di Milan TV. Tanti temi toccati, ecco le sue parole.
— Read on www.pianetamilan.it/news-milan/maldini-a-milan-tv-giurerei-di-nuovo-fedelta-ai-rossoneri/
La legge di Mino Raiola: “Ibra al Milan è come l’addio dei Queen”
30 DICEMBRE 2019
Pogba, De Ligt, Kean, Balotelli e l’ultimo afare con Haaland: parla il re del mercato. “Certi tifosi mi odiano? Dovrebbero chiedermi scusa per Donnarumma”
DAL NOSTRO INVIATO EMANUELE GAMBA
Montecarlo – Alle pareti dell’ufficio di Mino Raiola in Boulevard d’Italie ci sono le locandine dei film di 007 («Il mio mito») e le maglie dei giocatori della sua corte. «Ma quale corte: è la mia famiglia». Raiola s’entusiasma a raccontare di quando, a vent’anni, esportava bulbi, studiava legge, faceva gavetta come ds all’Haarlem e lavorava nel ristorante di famiglia, «dove ho imparato a capire le persone». Trent’anni dopo è così ricco che nemmeno lui sa quanto, e spesso il pianeta calcio gli orbita attorno. Sulla maglia di Moise Kean c’è una dedica: “a Mino, che mi farà diventare una star”.
Raiola, non è che invece Ibrahimovic è una stella cadente?
«Zlatan è tornato per divertirsi e per far divertire il mondo. Non potevo permettere che il suo ultimo palcoscenico fosse Los Angeles. Questi sei mesi saranno come l’ultima tournée dei Queen, un lungo tributo: bisognava farlo a San Siro».
Chi ha convinto chi, stavolta?
«Abbiamo litigato a ogni trasferimento. Se fossi ignorante, penserei che sono sempre stato io a decidere le sue squadre, invece a 52 anni credo di aver capito che lui decide e poi mi fa credere che la decisione l’ho presa io».
La serie A sta diventando il cimitero degli elefanti?
«Il caso di Zlatan è diverso, lui viene solo per sei mesi, poi vediamo. Però vi ho portato De Ligt, che volevano tutti. Tutti. Ma lui vuole diventare il miglior difensore al mondo e allora mi fa: “Mino, io devo andare all’Harvard della difesa, al Mit dei difensori”. Perciò abbiamo scelto la Juve: per prendere la laurea».
Non per la commissione che prende lei?
«La mia commissione dipende dallo stipendio del giocatore, e vale per tutti. Non punto la pistola alla tempia di nessuno».
Haaland non l’ha portato a studiare da noi.
«No, perché non è un difensore e perché non è De Ligt, che è capitano dell’Olanda da due anni. Gli italiani non sanno valorizzare i propri talenti, figurati quelli degli altri. A me capita di incontrare osservatori italiani che gridano al miracolo se vedono un 2001 forte. Allora gli dico: “ma che ve ne fate, se poi non lo fate giocare”».
Non mette tristezza la Juve che vende Kean?
«Tanta, anche a me. Non l’avrei portato in Premier se non parlasse perfettamente inglese, perché è ben raro che un ragazzo italiano si adatti all’estero: chiediamoci perché Spagna e Francia continuano a esportare giocatori e noi no. Ma se l’avessi lasciato alla Juve me l’avrebbero fatto giocare in serie C».
All’Everton però fa la riserva.
«Di lui non sono contenti, ma stracontenti. Sanno che c’è solo bisogno di tempo, perché in Premier i valori tecnici e fisici sono più alti e la serie A non ti prepara abbastanza. In questo senso Kean è come Balotelli, un talento talmente precoce che ha saltato delle fasi di crescita che però deve recuperare, perché ha delle lacune. Ho sulla scrivania una pila di richieste per lui, ma l’Everton non ha nessuna
intenzione di venderlo né lui di andarsene».
Perché molti dei suoi giocatori sono arroganti? Li educa lei a esserlo?
«Sono ambiziosi, che è diverso. Matuidi vi sembra arrogante? Nedved, se fosse stato arrogante, non avrebbe vinto un Pallone d’oro ma tre. E il problema di Balotelli è proprio la mancanza di arroganza, difatti è contento della sua carriera ed è l’unico a esserlo. Zlatan sì, è arrogante, infatti ho dovuto togliergli l’olandese che aveva dentro e metterci un italiano. “Ci penso io”, mi disse Capello, e Ibra ha imparato a fare gol. Gli olandesi sono un popolo straordinario, geniale, ma nel calcio loro sì, diventano arroganti. Pensate a Van Gaal. Infatti mi diverto a rinfacciargli i Mondiali vinti dall’Italia».
Pogba non era arrogante quando diceva di voler diventare meglio di Pelé?
«Per lui litigai con Ferguson: Paul fu l’unico a dirgli di no, non l’ha mai digerito e se la prese con me. Ma adesso il problema di Pogba è il Manchester: è un club fuori dalla realtà, senza un progetto sportivo. Oggi non porterei più nessuno là, rovinerebbero anche Maradona, Pelé e Maldini. Paul ha bisogno di una squadra e di una società, una come la prima Juve».
Alla fine i suoi assistiti finiscono per somigliarle?
«Io sono un procuratore tailor made. Sono fatto su misura per i giocatori che assisto, perché diventano la mia famiglia. C’è chi mi chiama tre volte al giorno come Ibra e tre volte l’anno come Matuidi, ma lavoro solo con quelli con cui c’è affinità».
Non l’ha mai scaricata nessuno?
«Diciamo che con Lukaku la separazione è stata consensuale».
Dicono: Raiola condiziona il mercato.
«Certo che sì. Io non voglio ritrovarmi il 29 agosto a decidere cosa fare».
E le commissioni, il mercato non lo drogano?
«Il punto è: guadagno molto o guadagno troppo? Io sono d’accordo sul molto. Oggi un grande club vale 4 miliardi, è tutto commisurato. I soldi fanno parte dello show. E comunque non sono i soldi a motivarmi, io ero già milionario a vent’anni, potevo sdraiarmi su una spiaggia e vivere di rendita. È la Fifa che per nascondere i suoi problemi non fa che attaccare i procuratori».
E vuole imporre tetti alle commissioni.
«Se non serviamo, perché i club non fanno da sé? Non sono i soldi che inseguono i sogni, ma viceversa. Mio padre mi diceva sempre che vendere una cosa a qualcuno una volta è facile, ma due volte è difficile. E come mai da me ricomprano sempre tutti? Sarà che non tiro bidoni?».
Non sarà che fa comunella coi ds?
«Se il mio avvocato facesse comunella con il pm, lo scaricherei subito. Mia nonna era analfabeta, ma mi ha sempre detto che non si può stare con Dio e con il diavolo. Io rifiuto anche gli incarichi di mediazione, tratto solo i trasferimenti dei miei che devono scegliermi per fiducia e non perché hanno paura, come invece facevano quelli che andavano alla Gea, convinti che se non lo avessero fatto sarebbero usciti dal giro. Il procuratore è come il medico di famiglia: se non ti fidi, è meglio che lo cambi. E poi non assisto allenatori: voglio avere la libertà di mandarli affanculo».
Coi colleghi come va?
«Con quelli che meritano di essere definiti tali, e non sono molti, ho un rapporto normale. Certo, ho i miei metodi. Non cerco di avere il controllo sui club e mantengo la mia dimensione: qui siamo in quattro, siamo una bottega artigianale e tale vogliamo rimanere. Con i miei ragazzi non ho bisogno di contratti, ma di feeling. E se vogliono, gli gestisco la vita intera, anche perché sanno che i loro segreti verranno con me nella tomba».
Raiola c’è sempre?
«Una volta uno mi ha telefonato alle due di notte: “Mino, mi sta bruciando casa”. Gli ho detto: “grazie di aver pensato a me, ma forse è meglio se chiami i pompieri, e intanto spostati di lì”. E lui: “grazie Mino, buon consiglio”. Tra loro i giocatori si parlano, io funziono con il passaparola. Difatti non vado a cercare nessuno, sono loro che vengono da me».
Lei va alle trattative in pantaloncini corti e maglietta: fa parte del personaggio?
«Mia mamma mi diceva: “Mino, conciati a modo”. Ma io con i vestiti non sto bene, sono a disagio. All’inizio mi guardavano come uno scemo, però poi ho capito che era anche meglio: se ti presenti vestito male ti sottovalutano, e in una trattativa è un gran vantaggio. L’unico che ha avuto qualcosa da dire è stato Braida, ma lui è un damerino. O gli avvocati della Fifa, a cui ho spiegato che la decenza non si vede dal vestito. E loro lo dimostrano».
Perché ce l’ha così tanto con la Fifa?
«È monopolista. È un centro di potere che non pensa al bene del calcio ma solo ai suoi interessi. Ma fa danni anche il Financial Fair Play».
Perché?
«In Italia abbiamo ormai un mercato a parte che finisce il 30 giugno, quando i club devono fare acrobazie strane per mettersi in regola con i conti: ma che senso ha? E che senso ha vietare a un club di fare acquisti? È una limitazione della libertà individuale: perché un mio calciatore non può andare al Chelsea, rimettendoci un sacco di soldi? Capitasse a un mio assistito farei causa, scatenerei un effetto mondiale».
Non parla per interesse? A voi fa comodo che girino tanti soldi.
«Con l’affare Pogba ho cambiato il mercato, i prezzi sono impazziti. Ma non ho sentito un solo club lamentarsene».
E di lei, si lamentano?
«Se parlano troppo bene di me, vuol dire che qualcosa ho sbagliato».
Certi tifosi la odiano, dicono che lei non ha rispetto per le bandiere, ma solo per gli affari.
«Dovrebbero chiedermi scusa per Donnarumma: Mino, avevi ragione tu. Volevo portarlo via perché non mi fidavo di quel Milan, come non mi fidavo dell’Inter di Thohir, e ditemi se non avevo ragione. Sarò poco romantico e politicamente scorretto, ma il mio scopo è massimizzare la carriera dei miei giocatori. Mi chiedo sempre: “cosa farei se fosse mio figlio?” I soldi sono solo l’ultimo step».
Anche per lei?
«A me non interessano».
Milan, una storia lunga 120 anni | GQ Italia

Era il 16 dicembre 1899 e in una saletta dell’Hotel du Nord nasceva il Milan Football & Cricket Club, squadra sportiva voluta da un imprenditore inglese di nome Herbert Kilpin, che voleva trapiantare a Milano la tradizione calcistica già molto diffusa in Inghilterra. Un uomo dalle idee chiare, che al momento della fondazione (la prima sede fu presso la fiaschetteria toscana di via Berchet) scrisse sullo statuto: «Saremo una squadra di diavoli. I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura che incuteremo agli avversari».
L’inizio fu promettente, con il primo scudetto nel 1901 che interruppe quella che fino ad allora era stata l’egemonia del Genoa. Dopo i successi del 1906 e del 1907 iniziò un digiuno durato ben 44 anni. Nel frattempo, il Milan trovò casa, lasciando l’Arena e trasferendosi nel 1926 nel nuovo stadio di San Siro, sorto per volontà dell’allora presidente Piero Pirelli. Il goleador dell’epoca fu Aldo Boffi, ma in quel Milan di metà ‘900 ci fu spazio anche per un certo Giuseppe Meazza (detto «Peppino»), che dopo una lunga carriera all’Inter passò agli storici rivali cittadini.
La luce tornò a splendere sulla Milano rossonera negli anni ’50, e il merito fu di un trio svedese, il famoso «Gre-No-Li», formato da Gren, Nordahl e Liedholm.

Con loro in squadra, il Milan conquistò lo scudetto nel 1950-51 e altri tre titoli tra il ’54 e il ’59 (era il Milan di Schiaffino, Cesare Maldini e del capitano Liedholm), per poi lasciare spazio, nel decennio successivo, alle giocate di Rivera e Altafini, una squadra capace di dominare in Italia e in Europa sotto la sapiente guida del «paron» Nereo Rocco. Nel 1963 arrivò la prima Coppa dei Campioni superando il Benfica di Eusebio nella finale di Wembley, successo bissato nel ’69 nella storica finale di Madrid contro l’Ajax di Cruijff, battuto per 4-1 con la storica tripletta di Pierino Prati e il gol di Sormani, guidati dalla regia illuminante di Gianni Rivera, capitano e leader di quella squadra. Quell’anno il Milan si aggiudicò anche la Coppa Intercontinentale nella doppia finale contro gli argentini dell’Estudiantes, un successo che permise a Rivera di vincere il Pallone d’Oro, primo italiano nella storia.

La svolta successiva nel 1986, quando nella storia rossonera irruppe Silvio Berlusconi, che salvò il Milan (reduce da due retrocessioni in Serie B) dal fallimento in tribunale e lo riportò in alto: «Dovremo imporre il nostro gioco, e vincere in Italia, in Europa e nel Mondo», disse appena arrivato, e in tanti sorrisero pensando che il sogno fosse irrealizzabile.

Così non fu, perché a Milano, sotto la guida di un profondo innovatore come Arrigo Sacchi, il trio degli olandesi Gullit-Van Basten-Rijkaard, insieme a colonne come Baresi, Maldini, Ancelotti e Donadoni diede vita a un ciclo rivoluzionario e irripetibile, che portò il Milan alla conquista di tutto ciò che poteva vincere. La Coppa dei Campioni del 1988 ne fu il simbolo, con 90 mila milanisti che riempirono il Camp Nou di Barcellona per assistere allo spettacolare 4-0 sulla Steaua Bucarest.

Con Capello in panchina, poi, nacque il mito degli «Invincibili», quelli che scrissero il record delle 58 gare in Serie A senza perdere mai, e che nel 1994 trionfarono per 4-0 nella finale di Champions ad Atene contro il Barcellona.
Zaccheroni e Weah portarono lo scudetto più imprevedibile, quello conquistato nel 1999 in rimonta sulla Lazio, mentre gli anni 2000 sono stati quelli di Carlo Ancelotti e di un Milan nuovo e vincente, che vide nascere una stella assoluta come il brasiliano Kakà.
In Italia, certo, ma soprattutto in Europa, con le vittorie di Manchester sulla Juventus (e il rigore decisivo di Shevchenko) e di Atene sul Liverpool, rivincita griffata Inzaghi della drammatica notte di Istanbul contro i Reds. Due successi resi ancora più speciali perché, dopo Cesare, fu il figlio Paolo ad alzare al cielo quei trofei, una tradizione di famiglia che potrebbe continuare con il giovane Daniel.

Nel 2011 l’ultimo scudetto con Allegri, prima delle intricate vicende societarie che hanno portato alla fine dell’era Berlusconi e a un nuovo inizio con il controverso Mister Li, prima dell’ingresso del fondo Elliott fino all’arrivo di Stefano Pioli in panchina, 61° allenatore rossonero.
Una lunga storia, 120 anni di miti, racconti, vittorie e sconfitte, cadute e risalite, una serie infinita di giocatori, allenatori e dirigenti entrati nella leggenda, una bacheca che mostra orgogliosa 18 scudetti, 7 Champions League, 5 Supercoppe europee, 7 Supercoppe italiane, 5 Coppe Italia, 2 Coppe delle Coppe, 3 Coppe Intercontinentali e un Mondiale per Club.
Per la festa dei 120 anni, prima della gara contro il Sassuolo del 15 dicembre (nell’occasione verrà indossata anche una maglia speciale e ai tifosi presenti allo stadio sarà regalata una sciarpa celebrativa) è stata organizzata una parata con alcuni dei personaggi che hanno fatto la storia del Milan: dai grandi allenatori (Sacchi, Capello, Allegri) ai capitani (Rivera, Baresi, Maldini), ma anche con i protagonisti di tante vittorie, come Altafini, Savicevic, Boban, Massaro, Inzaghi, Dida, Donadoni, Papin, Costacurta, Ambrosini, Albertini, Tassotti e tanti altri.

https://www.gqitalia.it/sport/article/milan-storia-personaggi-16-dicembre-1899