Patrick Cutrone sfida per la prima volta la squadra che lo ha fatto crescere e debuttare in serie A. È l’occasione per raccontarsi e spiegare perché pensa di aver già vissuto tre vite…
Fabrizio Salvio22 febbraio – 12:04 – MILANO

L’incontro comincia sotto infausti presagi. Patrick Cutrone arriva all’appuntamento in ritardo, stanco e nervoso per il prolungarsi delle cure mediche a una caviglia malconcia. Fa in tempo a sedersi e la situazione peggiora: Andrea e Nicolò, gli amici del cuore venuti a Firenze per passare una settimana con lui, gli comunicano giulivi di aver dato da mangiare al cane Arno (sì, il nome è un omaggio al fiume che bagna la città) prima di uscire di casa. “Ma no, che avete fatto?! Aveva già mangiato, ha due mesi, deve fare pasti regolari se non diventa troppo grosso, anzi grasso!”. Ahia.Commenta per primo
Stai a vedere che oggi finisce male. Invece improvvisamente il centravanti arrivato a gennaio alla Fiorentina torna il ragazzo che tutti hanno sempre descritto: solare e alla mano. E proprio da qui, dalla presa di coscienza di sé, parte questa intervista.SERIE AFiorentina0-01°TMilan
Cosa è rimasto del Patrick di Parè, la frazione di Colverde, provincia di Como, dove è cresciuto?
“Tutto. È rimasto il Patrick sorridente, generoso, disponibile con tutti. In campo, lo stesso: sono quello di una volta, orgoglioso di giocare a calcio”.
Ha 22 anni appena. Si rende conto di aver già vissuto tre vite? Milan, Inghilterra, il ritorno in Italia. Quando guarda i suoi amici e coetanei, invidia la loro spensieratezza di studenti o dice: rispetto a voi sono già uomo?
“Io mi ritengo molto fortunato: faccio la cosa – non riesco a chiamarlo lavoro – che amo di più al mondo. Uno può pensare alla noia degli alberghi e dei ritiri, ma anche questo è il bello del calcio. Io ne sono innamorato pazzo”.
Rimpianti? Avrebbe potuto studiare e divertirsi di più e meglio?
“Studiare, ho studiato. Ho preso il diploma allo Scientifico. I miei hanno battuto molto sulla necessità che avessi un pezzo di carta in mano. Al momento pensi “che palle”, poi capisci che hanno ragione. Non è bello far vedere che non hai una cultura, non sei in grado di dire due parole insieme”.
Oggi ha tempo e voglia di leggere un libro?
“Sono sincero: adesso ne sto leggendo uno. Me l’ha regalato la mamma della mia ragazza. Si intitola Momenti di trascurabile felicità, parla di quel che ti può capitare nell’arco di una giornata e metterti di buon umore, rasserenarti, e tu neanche te ne accorgi. Mi sta prendendo”.
Ricorda il suo primo pallone?
“Sì. In realtà me lo ricorda mia nonna, che mi portava al parco a giocare. Mi racconta che quella palla era più grande di me, ma che io non avevo paura di calciarla”.
E le prime partite?
“Nel giardino di casa di Andrea, alle sue feste di compleanno. Il padre aveva piazzato una porticina ed erano tornei infiniti, due contro due”.
E come esultava, allora, quando faceva gol?
“Un po’ sfottevo Andrea, che giocava contro. Più avanti, nella squadra dell’oratorio, mi facevo abbracciare da tutti i compagni oppure correvo intorno al campo”.
Chi è stato il suo idolo calcistico?
“Non ne avevo uno in particolare. Mi piaceva un sacco Van Persie, fenomenale. Poi Drogba, Inzaghi… Di Van Basten ho visto i video, perché me ne hanno parlato tanto”.
A 8 anni arriva al Milan dopo un provino all’Inter in cui segnò otto gol. Ha mai saputo perché i nerazzurri non la presero?
“Quel giorno eravamo tantissimi. Alla fine mi dissero ‘Ti richiameremo sicuramente’, invece non seppi più nulla. Poi feci un provino al Monza, e quella soluzione mi stava bene. Ma quando arrivò la chiamata del Milan non ci pensai un attimo. Al provino segnai quattro gol: bastarono per essere preso. In realtà mi avevano già preso”.
Chi è stato il suo primo allenatore in rossonero?
“Roberto Lo Russo. Sono più legato a Luigi Rampoldi, che mi ha scoperto e portato al Milan. Lo sento ancora. Ha una certa età, gli voglio un sacco di bene e, più che parlare di me, voglio sapere di lui”.
A chi altri deve dire grazie nel calcio?
“Tutti gli allenatori che ho avuto mi hanno aiutato a crescere, in qualsiasi modo lo abbiano fatto. Walter De Vecchi e Italo Galbiati sono stati molto importanti. Al primo anno di Milan De Vecchi mi diceva: ‘Per calciare meglio la palla, devi posizionarti in maniera diversa col corpo. Fai come ti dico e vedrai che sarà tutto diverso’. Tempo due mesi e colpivo il pallone come mai prima”.
Com’è andata davvero con Rino Gattuso, che l’ha allenata in prima squadra?
“È stato un bel rapporto. Siamo due persone vere, che si dicono le cose in faccia. Una volta, a Bologna, mi sostituì e borbottai: il giorno dopo gli chiesi scusa. L’ultimo periodo mi fece giocare di meno, ma non mi va di parlarne. Ha dimostrato di tenerci a me, in allenamento mi stava dietro, mi diceva dove migliorare. Su questo non posso dir niente”.
Esordio in A il 21 maggio 2017: se chiude gli occhi qual è la prima cosa che le viene in mente?
“Era l’ultima in casa di campionato, contro il Bologna. Lo stadio era pienissimo. Era da un po’ che aspettavo di esordire. Sul 2-0 ho iniziato a sperare, ma mister Montella non mi faceva scaldare. Quando mancava poco alla fine mi disse: “Vai, preparati”. Mi sono emozionato un sacco. Non vedevo l’ora di entrare e spaccare il mondo. Iniziai a correre su e giù lungo la linea laterale, avrò fatto 6 chilometri in dieci secondi. Entrai che mancava pochissimo alla fine, ma bastò per rendere quei momenti indimenticabili: giocavo finalmente nello stadio dei miei sogni, con tutta quella gente che mi guardava”.
Stasera, per la prima volta da quando lo ha lasciato, giocherà contro il suo Milan: cosa vuol dire?
“Forse è meglio che succeda a Firenze, piuttosto che a San Siro. È una squadra cui tengo ancora tantissimo. Sarà bello incontrare i miei vecchi compagni e i tifosi, che mi hanno sempre fatto sentire il loro affetto”.
Perché, secondo lei? Solo perché è cresciuto con la maglia del Milan addosso?
“Io penso che i tifosi rappresentino una gran parte del calcio. Senza di loro sarebbe tutto meno bello. Perciò ho sempre cercato di dar tutto quello che avevo: per la maglia e per loro che ti sostengono”.
A fine partita chiederà la maglia a Ibra?
“Sarebbe bello. È Ibra, non c’è bisogno di dire altro”.
Perché ha detto sì alla Fiorentina?
“È una squadra che mi ha sempre affascinato per la sua storia, per i campioni come Batistuta che ci sono passati, per la sua tifoseria appassionata”.
Cos’ha Vlahovic più di lei e che cosa ha lei più di lui?
“Secondo me ci completiamo. Io attacco di più lo spazio, lui viene più incontro. Mi piacerebbe giocarci insieme”.
Cosa si porta dietro dall’Inghilterra?
“Sono cresciuto a livello umano e professionale. Ho conosciuto una nuova cultura, nuovi usi, ho migliorato di parecchio il mio inglese, che adesso parlo discretamente. A livello calcistico ho imparato un nuovo modo di giocare, con ritmi di gioco diversi, più intensi, dove si attacca molto di più, senza paura di allungarsi. In Premier non si indietreggia, si avanza”.
Perché al Wolverhampton non è andata bene?
“Molti dicono che non mi sia ambientato. Falso. La verità è che l’allenatore, Espirito Santo, aveva il suo gruppetto di fedelissimi, quelli con cui era stato promosso, dal quale non derogava. Era fissato sui suoi undici, e gli altri non li vedeva; non soltanto me, tutti. Ho giocato tre partite da titolare e segnato due gol, ma non era cambiato niente. A quel punto son voluto andare via”.
Il suo autoritratto di calciatore.
“Impegno. Dedizione. Fiuto del gol”.
Un difetto che ti riconosci e che sta lavorando per eliminare? Gattuso diceva che deve proteggere di più la palla.
(sorrisino) “Ma io credo di saperlo fare… Poi certe volte è dovuto anche al fatto… Non so come spiegare”.
Ci provi.
(sembra cercare le parole giuste, dall’esterno gli consigliano di non fare polemiche, la risposta che segue è perciò politicamente corretta) “Ho qualche lacuna, che posso colmare con la personalità e il lavoro”.
Il suo autoritratto di uomo.
“Vero. Generoso. Testardo” (gli amici presenti: “E permaloso”).
È permaloso?
“Quando perdo e mi prendono in giro. Impazzisco”.
Ha detto una volta: papà mi sopporta. Quando diventa insopportabile?
“Dopo una sconfitta, appunto. Lui capisce, e lascia passare un’oretta prima di chiamarmi. Poi usa le parole giuste per calmarmi”.
Qual è la cosa detta sul suo conto che più la fa incazzare?
“Quando dicono che sono solo uno da area di rigore”.
Un altro difetto che si riconosce?
“Mi arrabbio troppo con me stesso”.
In cosa è testardo?
“Sulle mie decisioni. Quando ne prendo una, non cambio mai idea”.
E se poi si accorge di aver sbagliato, è capace di chiedere scusa?
“Sì. Anche a me stesso”.
Come le piace spendere i suoi soldi?
“In vacanze al mare. Ne ricordo una a Dubai: spettacolare. E poi gli orologi: ne ho soltanto due, ma preziosi”.
Metta in fila i tre centravanti più forti del mondo…
“Lewandosvski. È il più forte per la tranquillità, la naturalezza con cui fa le cose. Higuain: gioca di squadra, facilità di smarcamento, di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Infine Lautaro: ci assomigliamo un po’ per determinazione e spirito di sacrificio. E poi c’è Ibra, ma lui è fuori categoria. Lui sa e può far tutto”.
Cutrone, cos’è il gol per lei?
“Una dipendenza. Perciò spero di farne tanti”.