La legge di Mino Raiola: “Ibra al Milan è come l’addio dei Queen”

30 DICEMBRE 2019

Pogba, De Ligt, Kean, Balotelli e l’ultimo afare con Haaland: parla il re del mercato. “Certi tifosi mi odiano? Dovrebbero chiedermi scusa per Donnarumma”

DAL NOSTRO INVIATO EMANUELE GAMBA

Montecarlo – Alle pareti dell’ufficio di Mino Raiola in Boulevard d’Italie ci sono le locandine dei film di 007 («Il mio mito») e le maglie dei giocatori della sua corte. «Ma quale corte: è la mia famiglia». Raiola s’entusiasma a raccontare di quando, a vent’anni, esportava bulbi, studiava legge, faceva gavetta come ds all’Haarlem e lavorava nel ristorante di famiglia, «dove ho imparato a capire le persone». Trent’anni dopo è così ricco che nemmeno lui sa quanto, e spesso il pianeta calcio gli orbita attorno. Sulla maglia di Moise Kean c’è una dedica: “a Mino, che mi farà diventare una star”.

Raiola, non è che invece Ibrahimovic è una stella cadente?
«Zlatan è tornato per divertirsi e per far divertire il mondo. Non potevo permettere che il suo ultimo palcoscenico fosse Los Angeles. Questi sei mesi saranno come l’ultima tournée dei Queen, un lungo tributo: bisognava farlo a San Siro».

Chi ha convinto chi, stavolta?
«Abbiamo litigato a ogni trasferimento. Se fossi ignorante, penserei che sono sempre stato io a decidere le sue squadre, invece a 52 anni credo di aver capito che lui decide e poi mi fa credere che la decisione l’ho presa io».

La serie A sta diventando il cimitero degli elefanti?
«Il caso di Zlatan è diverso, lui viene solo per sei mesi, poi vediamo. Però vi ho portato De Ligt, che volevano tutti. Tutti. Ma lui vuole diventare il miglior difensore al mondo e allora mi fa: “Mino, io devo andare all’Harvard della difesa, al Mit dei difensori”. Perciò abbiamo scelto la Juve: per prendere la laurea».

Non per la commissione che prende lei?
«La mia commissione dipende dallo stipendio del giocatore, e vale per tutti. Non punto la pistola alla tempia di nessuno».

Haaland non l’ha portato a studiare da noi.
«No, perché non è un difensore e perché non è De Ligt, che è capitano dell’Olanda da due anni. Gli italiani non sanno valorizzare i propri talenti, figurati quelli degli altri. A me capita di incontrare osservatori italiani che gridano al miracolo se vedono un 2001 forte. Allora gli dico: “ma che ve ne fate, se poi non lo fate giocare”».

Non mette tristezza la Juve che vende Kean?
«Tanta, anche a me. Non l’avrei portato in Premier se non parlasse perfettamente inglese, perché è ben raro che un ragazzo italiano si adatti all’estero: chiediamoci perché Spagna e Francia continuano a esportare giocatori e noi no. Ma se l’avessi lasciato alla Juve me l’avrebbero fatto giocare in serie C».

All’Everton però fa la riserva.
«Di lui non sono contenti, ma stracontenti. Sanno che c’è solo bisogno di tempo, perché in Premier i valori tecnici e fisici sono più alti e la serie A non ti prepara abbastanza. In questo senso Kean è come Balotelli, un talento talmente precoce che ha saltato delle fasi di crescita che però deve recuperare, perché ha delle lacune. Ho sulla scrivania una pila di richieste per lui, ma l’Everton non ha nessuna  

intenzione di venderlo né lui di andarsene».

Perché molti dei suoi giocatori sono arroganti? Li educa lei a esserlo?
«Sono ambiziosi, che è diverso. Matuidi vi sembra arrogante? Nedved, se fosse stato arrogante, non avrebbe vinto un Pallone d’oro ma tre. E il problema di Balotelli è proprio la mancanza di arroganza, difatti è contento della sua carriera ed è l’unico a esserlo. Zlatan sì, è arrogante, infatti ho dovuto togliergli l’olandese che aveva dentro e metterci un italiano. “Ci penso io”, mi disse Capello, e Ibra ha imparato a fare gol. Gli olandesi sono un popolo straordinario, geniale, ma nel calcio loro sì, diventano arroganti. Pensate a Van Gaal. Infatti mi diverto a rinfacciargli i Mondiali vinti dall’Italia».

Pogba non era arrogante quando diceva di voler diventare meglio di Pelé?
«Per lui litigai con Ferguson: Paul fu l’unico a dirgli di no, non l’ha mai digerito e se la prese con me. Ma adesso il problema di Pogba è il Manchester: è un club fuori dalla realtà, senza un progetto sportivo. Oggi non porterei più nessuno là, rovinerebbero anche Maradona, Pelé e Maldini. Paul ha bisogno di una squadra e di una società, una come la prima Juve».

Alla fine i suoi assistiti finiscono per somigliarle?
«Io sono un procuratore tailor made. Sono fatto su misura per i giocatori che assisto, perché diventano la mia famiglia. C’è chi mi chiama tre volte al giorno come Ibra e tre volte l’anno come Matuidi, ma lavoro solo con quelli con cui c’è affinità».

Non l’ha mai scaricata nessuno?
«Diciamo che con Lukaku la separazione è stata consensuale».

Dicono: Raiola condiziona il mercato.
«Certo che sì. Io non voglio ritrovarmi il 29 agosto a decidere cosa fare».

E le commissioni, il mercato non lo drogano?
«Il punto è: guadagno molto o guadagno troppo? Io sono d’accordo sul molto. Oggi un grande club vale 4 miliardi, è tutto commisurato. I soldi fanno parte dello show. E comunque non sono i soldi a motivarmi, io ero già milionario a vent’anni, potevo sdraiarmi su una spiaggia e vivere di rendita. È la Fifa che per nascondere i suoi problemi non fa che attaccare i procuratori».

E vuole imporre tetti alle commissioni.
«Se non serviamo, perché i club non fanno da sé? Non sono i soldi che inseguono i sogni, ma viceversa. Mio padre mi diceva sempre che vendere una cosa a qualcuno una volta è facile, ma due volte è difficile. E come mai da me ricomprano sempre tutti? Sarà che non tiro bidoni?».

Non sarà che fa comunella coi ds?
«Se il mio avvocato facesse comunella con il pm, lo scaricherei subito. Mia nonna era analfabeta, ma mi ha sempre detto che non si può stare con Dio e con il diavolo. Io rifiuto anche gli incarichi di mediazione, tratto solo i trasferimenti dei miei che devono scegliermi per fiducia e non perché hanno paura, come invece facevano quelli che andavano alla Gea, convinti che se non lo avessero fatto sarebbero usciti dal giro. Il procuratore è come il medico di famiglia: se non ti fidi, è meglio che lo cambi. E poi non assisto allenatori: voglio avere la libertà di mandarli affanculo».

Coi colleghi come va?
«Con quelli che meritano di essere definiti tali, e non sono molti, ho un rapporto normale. Certo, ho i miei metodi. Non cerco di avere il controllo sui club e mantengo la mia dimensione: qui siamo in quattro, siamo una bottega artigianale e tale vogliamo rimanere. Con i miei ragazzi non ho bisogno di contratti, ma di feeling. E se vogliono, gli gestisco la vita intera, anche perché sanno che i loro segreti verranno con me nella tomba».

Raiola c’è sempre?
«Una volta uno mi ha telefonato alle due di notte: “Mino, mi sta bruciando casa”. Gli ho detto: “grazie di aver pensato a me, ma forse è meglio se chiami i pompieri, e intanto spostati di lì”. E lui: “grazie Mino, buon consiglio”. Tra loro i giocatori si parlano, io funziono con il passaparola. Difatti non vado a cercare nessuno, sono loro che vengono da me».

Lei va alle trattative in pantaloncini corti e maglietta: fa parte del personaggio?
«Mia mamma mi diceva: “Mino, conciati a modo”. Ma io con i vestiti non sto bene, sono a disagio. All’inizio mi guardavano come uno scemo, però poi ho capito che era anche meglio: se ti presenti vestito male ti sottovalutano, e in una trattativa è un gran vantaggio. L’unico che ha avuto qualcosa da dire è stato Braida, ma lui è un damerino. O gli avvocati della Fifa, a cui ho spiegato che la decenza non si vede dal vestito. E loro lo dimostrano».

Perché ce l’ha così tanto con la Fifa?
«È monopolista. È un centro di potere che non pensa al bene del calcio ma solo ai suoi interessi. Ma fa danni anche il Financial Fair Play».

Perché?
«In Italia abbiamo ormai un mercato a parte che finisce il 30 giugno, quando i club devono fare acrobazie strane per mettersi in regola con i conti: ma che senso ha? E che senso ha vietare a un club di fare acquisti? È una limitazione della libertà individuale: perché un mio calciatore non può andare al Chelsea, rimettendoci un sacco di soldi? Capitasse a un mio assistito farei causa, scatenerei un effetto mondiale».

Non parla per interesse? A voi fa comodo che girino tanti soldi.
«Con l’affare Pogba ho cambiato il mercato, i prezzi sono impazziti. Ma non ho sentito un solo club lamentarsene».

E di lei, si lamentano?
«Se parlano troppo bene di me, vuol dire che qualcosa ho sbagliato».

Certi tifosi la odiano, dicono che lei non ha rispetto per le bandiere, ma solo per gli affari.
«Dovrebbero chiedermi scusa per Donnarumma: Mino, avevi ragione tu. Volevo portarlo via perché non mi fidavo di quel Milan, come non mi fidavo dell’Inter di Thohir, e ditemi se non avevo ragione. Sarò poco romantico e politicamente scorretto, ma il mio scopo è massimizzare la carriera dei miei giocatori. Mi chiedo sempre: “cosa farei se fosse mio figlio?” I soldi sono solo l’ultimo step».

Anche per lei?
«A me non interessano».

L’addio a Sergio Mascheroni Milan e Crotone ai funerali

Veniano, L’abbraccio di Paolo Maldini e di Nelson Dida alla famiglia del preparatore atletico morto in montagna

Tanta gente oggi pomeriggio ai funerali di Sergio Mascheroni, il preparatore atletico del Crotone calcio ( e prima ancora di Milan e Foggia) morto mercoledì dopo una caduta in montagna.

L’addio a Sergio Mascheroni  Milan e Crotone ai funerali

Veniano , Serginho con il padre di Sergio Mascheroni

Veniano , Serginho con il padre di Sergio Mascheroni 
(Foto by Andrea Butti)

Alla cerimonia erano presenti tanti amici di Albavilla, il paese originario della famiglia e di Veniano, soprattutto tanti giocatori: la squadra del Crotone al completo arrivata con un volo charter messo a disposizione dalla società.

Veniano  Jens Lehmann

Veniano Jens Lehmann 
(Foto by Andrea Butti)

Folta la rappresentanza del Milan a partire da Paolo Maldini e il portierone Dida con i colleghi Jens Lehmann e Valerio Fiori oltre al difensore brasiliano Sergignho. Con loro, tra gli altri, anche Giovanni Stroppa , Daniele Tognacchini (storico preparatore atletico del Milan).

https://www.laprovinciadicomo.it/stories/Erba/laddio-a-sergio-mascheroni-milan-e-crotone-ai-funerali_1323719_11/

Gattuso ricorda il ‘suo’ Milan: “Champions 2007? Vinta in ritiro a Malta, tra freddo e vino”

L’allenatore del Milan Gennaro Gattuso ha ricordato alcuni dei suoi successi da calciatore, svelando simpatici retroscena

Anche Gennaro Gattuso è intervenuto durante l’incontro di presentazione del libro “Da Calciopoli ai Pink Floyd” di Alberto Costa concentrandosi soprattutto sul passato da giocatore del Milan“Galliani e Berlusconi pagavano buoni premi, ho preso tante di quelle multe da 1 milione-1 milione e mezzo, con tutti i danni che ho fatto. Poi meno male che vincevamo trofei e tutto passava in secondo piano. La rissa Ibra-Onyewu? Ci allenammo al campo 6, si sono acchiappati e pesavano 100kg l’uno: ho preso due schiaffi, e alla fine ho detto “ammazzatevi”. Ambrosini neanche si avvicinò, io da eroe mi sono avvicinato e ho provato a fermarli anche con un calcio, sono andato via poi. Nessuno poteva fermarli, si son sfogati. A Ibra poi è passata subito, non gli piace portare rancore: ad avercene di giocatori come lui”.

ibrahimovic IMAGE utd.jpg

L’allenatore dei rossoneri continua: “La salvezza del Milan in questi anni è stata il rispetto delle regole, poche volte Galliani è intervenuto: eravamo noi a rispettare la storia, c’era grande mentalità. Oggi si fa più fatica, la mentalità dei giocatori è cambiata: il primo giorno in cui sono andato a Milanello e mi sono fatto la barba ho lasciato due peli sul lavandino e Costacurta mi diede uno schiaffo in testa, dicendomi di pulire. Facevo fatica a parlare la stessa lingua che ho parlato l’ultimo anno in cui ho giocato in rossonero, per questo andai via: ora viviamo un’epoca diversa rispetto al passato. Si può tornare come prima, ma non bisogna dimenticare che i tempi son cambiati: è normale che se un allenatore crede fortemente in ciò che fanno i ragazzi, con passione e voglia, debba avere la fortuna di avere giocatori che facciano questo”.

Gattuso non riesce a trattenere i ricordi che riaffiorano nella sua mente: “Una volta si sentiva solo musica italiana negli spogliatoi: ora se metti musica italiana in spogliatoio ridono, va di moda l’hip-hop. Se metti Pupo(tutti ridono). Oggi tutti i giocatori guardano partite che giocano in campionati esteri e ascoltano la musica con le cuffie. Poi se metti regolamenti si lamentano, cercano alibi e pensano alle loro abitudini: ognuno ora pensa al suo orticello, alle cose che gli piace fare. Io sono arrivato nel ‘99 e la tecnologia non era arrivata ai livelli di oggi, la musica si ascoltava il giusto. Da allenatore è una cosa che non concepisco quella di ascoltare la musica prima delle partite, ma l’ho accettato ora e mi sono aperto per non essere un disadattato. Era meglio sentire Pupo che quella schifezza di musica hip-hop che non si capisce niente”, prosegue l’allenatore rossonero.

Poi un aneddoto che fa capire quanto quel Milan fosse compatto in tutti i suoi componenti: Nel 2007 vivevamo un periodaccio e la società ci mandò a Malta  per il ritiro: faceva un freddo cane, eravamo tutti incazzati con Galliani. Dopo essere tornati a Milano, ci tornammo. Quell’anno vincemmo poi la Champions: stavamo fino alle 5 di mattina in 10-14 tra noi, bevendo un bicchiere di vino. Queste cose ci hanno rafforzato, oggi i giocatori mangiano, si alzano e vanno via. Ho giocato con tantissimi campioni, ma per essere tale devi essere coerente, non saltare un allenamento: Maldini per non saltare un allenamento prendeva 1-2 aulin al giorno, per me è il più forte con cui abbia mai giocato. Se all’epoca si diceva che non si dovevano vincere i giornali, così i giornali non si leggevano”.

galliani GDM.jpg

E dopo aver parlato a lungo degli altri, la conclusione è tutta dedicata a sé stesso: “Nella vita ho sempre pensato di diventare il più forte nel mio ruolo, l’incontrista: ho cercato di migliorarmi, avevo qualità. Così scarso tecnicamente non ero, ma sapevo quale fosse il mio lavoro e quali fossero i miei limiti. Questo mettevo a disposizione”, ha concluso Gattuso.

https://gianlucadimarzio.com/it/dichiarazioni-gattuso-milan-ricordi

Maldini, 50 anni di mito: “So chi sarò, non so dove sarò. Ma non sono preoccupato” l Sky Sport

mal

Federico Buffa incontra Paolo Maldini nel giorno del suo cinquantesimo compleanno e ne viene fuori una lunga chiacchierata. Ricordi mai sbiaditi della storia rossonera. Anche episodi divertenti, come “quando Agostino Di Bartolomei telefonava all’amico Andreotti” e attuali. “Adesso quando sento Van Basten parliamo dei nostri dolori…”

#SKYMALDINIDAY, AUGURI PAOLO

#SKYBUFFARACCONTA

Sky Sport celebra il 50° compleanno di Paolo Maldini: alle 20.45 e a mezzanotte, appuntamento con “Federico Buffa incontra Paolo Maldini”: lo storyteller e il campione ripercorrono insieme le fasi più interessanti della carriera dell’ex difensore, le origini, l’amore per la famiglia e per la sua città, gli esordi, l’etica e l’estetica del calcio apprese dal padre Cesare, i primi grandi maestri in panchina (Liedholm) e in campo (Di Bartolomei e Baresi), il presente e il futuro. Un racconto originale che, grazie allo stile narrativo unico di Buffa, si trasforma in un viaggio tra ricordi ed emozioni.

Nato e cresciuto a Milano, sei fratelli, il maschio che non arrivava e una casa stretta…

“Sono nato e cresciuto a Milano: mi identifico nei valori dei lombardi… Secondo me, nelle idee di mio padre e mia madre, non c’era l’idea di fare 6 figli: ho anche il piccolo dubbio che loro cercassero comunque il maschio e il maschio è arrivato solamente al quarto tentativo. La casa era stretta sì, ma penso sia stata la mia fortuna. È stato un divertimento incredibile”.

Fino a 14 anni non era una stella, ma poi…

“Papà Cesare ha subito visto in me un calciatore? No, certo che gli venisse il dubbio, probabilmente era anche un bel dubbio, però, di tanti talenti poi sprecati…  almeno io, nelle giovanili, non ero sicuramente la stella, diciamo dai 10 ai 14 anni. Poi, dai 14 anni in poi ho fatto il salto di qualità”. Alla domanda se Cesare gli avesse chiesto se giocare nel Milan o nell’Inter, Maldini spiega:“Sì. Non solo Milan o Inter, siccome io avevo un mio compagno di classe che abitava al pianterreno, e aveva un bello spazio dove poter giocare, mi piaceva giocare in porta. Mi ha chiesto se volevo fare il portiere e se volevo andare al Milan o all’Inter. E io ci ho pensato, non su Milan o Inter, ma sul fatto se fare il portiere o il calciatore di movimento”.

Dove vuole, Mister

Leggenda dice che, col solito verbo “iocare”, Niels Liedholm, “il Barone”, ti abbia chiesto, addirittura, dove volessi giocare. “Se a destra o a sinistra, sì”. E tu, destro naturale, dici destra. “No: Dove vuole Mister. Almeno il rispetto. Ma è stata una sorpresa per tutti, è stata una sorpresa per me. A causa della nevicata ci allenavamo a Milanello ed era tutto ghiacciato. Non avevo le scarpe da ghiaccio e me le sono fatte prestare da un giocatore che aveva due numeri meno di me, sono arrivato a Udine con le unghie completamente andate, un dolore terribile, sono andato in panchina non allacciando le scarpe. Nel momento in cui mi ha detto: entri, non ho sentito più niente.”

La prima intervista e quel dubbio sulla sessualità

“C’è stata tanta attenzione per il mio esordio, sono state programmate anche delle interviste, il lunedì avrei avuto un sacco di pressione, soprattutto a scuola, io ho chiesto di non andare e sono stato accontentato”.

Ma un’intervista te l’hanno fatta e non hai un grande ricordo. “No, diciamo che il mio rapporto con la stampa forse è stato anche condizionato da quell’intervista.  Perché le esperienze ti condizionano e mi ricordo questa giornalista della Gazzetta (ndr. Rosanna Marani), diciamo che non era tanto interessata all’aspetto sportivo, ma siccome indossavo una polo – tra l’altro in dotazione proprio alla squadra Milan – una polo rosa, è andata sulle domande personali: “Sei fidanzato, non sei fidanzato…” Allora non lo ero. E diciamo che nell’articolo ha fatto supporre una mia omosessualità che sinceramente il giorno dopo mi ha messo a grossissimo disagio nei confronti dei compagni. Certo, me l’avessero fatta adesso mi sarei messo a ridere, però ti puoi immaginare nell’’84-‘85, un ragazzo di sedici anni, che si affaccia al mondo dello sport e questo è diciamo l’esordio sulla stampa…

Quando Di Bartolomei telefonava ad Andreotti

Agostino Di Bartolomei è stata una persona importante, perché era bravissimo coi ragazzi giovani, con me in particolare. Probabilmente aveva visto qualcosa in me che gli piaceva, sono stato in camera con lui più volte, dove tra l’altro chiamava al telefono il suo amico Giulio Andreotti…

Una volta ho giocato centrale con lui e gli faccio: “Ago, dove vuoi giocare, a destra o a sinistra?”. Mi ricorderò sempre, a Lecce. E lui mi ha detto: “Paoletto, io sto in mezzo e tu me corri intorno”.

Solo il giorno dell’esordio ha capito che poteva giocare in Serie A!

Quando mi sono accorto che sarei diventato quello che sono diventato? “Sinceramente, il giorno dell’esordio. Quel giorno di Udine ho finito la partita e ho detto: “Ma io allora posso giocare in Serie A”. Fino allora non lo avevo mai pensato.

Tra i giocatori che ti hanno dato “fastidio” c’è Chris Waddle. “Ciondolante, ma meno scattante. A me davano fastidio quelli che spostavano la palla, ondeggiavano… Shevchenko ti puntava così e… difficile. Io sono uno scattista. Ero uno scattista, non più ormai. Quelli che si fermavano e ripartivano erano il mio pane.”

Quando ti accorgi che sei finto in un Milan diverso da quello in cui sei cresciuto, cioè dall’86 in poi, cosa cambia in Maldini? “Cambia tutto. La maniera di allenarsi, cambiano gli obiettivi, cambia qualche compagno, anche se io credo che la fortuna di quel Milan sia stata Liedholm e quei 4-5 difensori- insieme poi ad Evani-, perché la base di tutto quel Milan lì era la difesa italiana a quattro. Quello è stato il grande motore del Milan, di Sacchi e poi di Capello”.

Adesso con Van Basten parlano dei loro acciacchi… 

“Marco era uno spettacolo, veramente uno spettacolo. Un giocatore con una classe immensa. Bomber, cattivo. Era esattamente alto come me, pesava come me, aveva una classe diversa, ma anche negli allenamenti fisici eravamo sempre a battagliare. Adesso quando ci sentiamo, purtroppo, parliamo sempre dei nostri dolori. Lui tra l’altro ha dovuto smettere quando era al massimo a 28 anni, era capocannoniere”.

Gullit, un calcio totale. La fatica fatta con Sacchi 

“Ruud era un giocatore veramente universale. E non lo era solo sul campo, spingeva la squadra ad essere più coraggiosa, all’olandese. Quando rivedevamo le partite, lui spingeva i terzini più avanti. Un calcio veramente totale. E da quel punto di vista lui è stato davvero importantissimo”.

Sacchi vi mise anche in stanza insieme. “La rivoluzione è stata totale. Allenamento, maniera di comprendere, capire e vivere il calcio, impegno, diciamo… 24 ore su 24, anche se io non ero particolarmente d’accordo, però abbiamo fatto anche a livello fisico delle cose che le squadre del giorno d’oggi assolutamente non fanno.  Io arrivavo il giovedì, venerdì che io dicevo: “Io non riesco a giocare domenica, son sicuro che non riesco a giocare”. Perché ero stravolto, io come tutti gli altri. Poi arrivavi al sabato, pre-gara e iniziavi a sentirti bene, ma proprio per la stanchezza. E la domenica avevamo una forza incredibile. Per quegli anni era una squadra anche molto forte fisicamente.

Il rapporto coi tifosi

Con i tifosi un rapporto conflittuale… “Per me la mia privata era sacra… tanto alla fine, se io esco e non rendo alla domenica, sono io quello che non ne beneficia di questa situazione. Quindi sono io che gestisco la mia vita, sono io che so quello che sa di cosa ha bisogno. Quando vivevo ancora a casa dei miei, mi ricorderò sempre mio papà. Giochiamo con la Sampdoria di Vialli e Mancini. Martedì. Io dico: papà io vado fuori a cena. E lui mi fa: “cosa?? Ho detto: papà vado fuori a cena. “aolo, ma giocate con la Sampdoria domenica…Papà, ma è martedì!”

Sullo scontro con i tifosi dopo la sconfitta in finale contro il Liverpool: “Questo è lo sport. È proprio il succo dello sport: ti do anche l’anima, io posso anche morire in campo, però, una volta che lo faccio, non mi devi dire “Impegnati” o “Sei uno… un poco di buono”. Come capitano non potevo accettarlo. Non potevo accettare che un ragazzino di 22 anni – io giocavo da 20 anni al Milan – dopo una partita del genere, mi dicesse qualcosa.

Nel futuro di Maldini

Maldini non ha mai fatto l’allenatore. “No, per scelta. Dico sempre che non ho mai detto quello che avrei fatto, perché sinceramente non sapevo, ma ero sicuro di quello che non avrei fatto. E già non è male, come inizio”. Fare il direttore tecnico di un club? “Credo di avere una certa conoscenza calcistica, la personalità per parlare con determinate persone, che sembra una stupidaggine, ma non è così banale riuscire a parlare con tutti e a farsi sentire da tutti”.

50 anni ad Ibizia

“Prima di tutto non amo festeggiare, ma per questa occasione ho deciso di portare tutta la famiglia e qualche amico a Ibiza: sono tre mesi che sto dietro a questa organizzazione…Però alla fin fine lo devi festeggiare con le persone della famiglia, le persone che sono state importanti per te, e queste sono quelle della mia famiglia”.

Consapevolezza

A 50 anni chi vuole essere Palo Maldini? “Diciamo non così chiara sul chi sarò. E anche chi sono ce l’ho abbastanza chiara o forse, anche su chi sarò, perché alla fine, è sempre stato difficile scindere la persona dal ruolo, che fosse calciatore, che fosse imprenditore, quello che vuoi. Quindi so chi sarò. Non so dove sarò. Questo ancora non lo so, ma non mi preoccupa più di tanto”.Visualizza l’immagine su Twitter

Visualizza l'immagine su Twitter

Roberto Mancini@robymancio

Ne é passato di tempo da questa foto…Tanto talento, senso del dovere e professionalità sulla tua maglia numero 3. Meriti un compleanno speciale per i tuoi primi 50 anni Paolo #Maldini!2.78516:46 – 26 giu 2018466 utenti ne stanno parlando

https://sport.sky.it/calcio/altro/2018/06/26/paolo-maldini-50-anni-tra-passato-e-futuro.html

Paolo Maldini sempre al top: a 49 anni pare ancora un ragazzino – Tiscali Sport

(KIKA) – MIAMI – Paolo Maldini sembra aver trovato la formula segreta per l’eterna giovinezza. A 49 anni infatti, lo storico capitano del Milan e della Nazionale è ancora in forma smagliante come mostrano queste foto in arrivo da Miami Beach dove è stato fotografato dopo una giornata in spiaggia in compagnia di un paio di amici. Asciutto e con il solito bel sorriso, l’unico segno del tempo che mostra è un accenno di barba brizzolata.

ECCO LE FOTO

http://www.kikapress.com/gallery/paolo-maldini-sempre-top-49-anni

La bandiera rossonera è tornata di recente a far parlare di sé per il suo (sfortunato) debutto da tennista professionista e per l’offerta ricevuta dalla Federcalcio Italiana che lo vorrebbe investire della carica di nuovo Team Manager della Nazionale.

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE: Addio Cesare Maldini, l’ex Ct della Nazionale aveva 84 anni

PAPA’ MALDINI ALLENA I FIGLI A CAVALCARE LE ONDE

ESCLUSIVO – Pap? Maldini allena i figli a cavalcare le onde

https://spettacoli.tiscali.it/photogallery/gallery/paolo-maldini-sempre-al-top-a-49-anni-pare-ancora-un-ragazzino/102300/

C’era una volta Maldini

Once Upon a Time, Maldini

Paolo Maldini è ritornato al Milan, al suo posto nel mondo.

Paolo Maldni回到了米兰,回到了世界上专属于他的那个地方。

Gli ultimi cinque minuti dei centosessantacinque che compongono uno dei grandi western crepuscolari della storia del cinema, C’era una volta il West di Sergio Leone, iniziano con Armonica (Charles Bronson), pistolero solitario dal passato tormentato, che assiste alla morte del bandito Cheyenne (Jason Robards), rimasto freddato nello scontro a fuoco finale. Nelle intenzioni del regista e dei suoi giovani e clamorosi sceneggiatori (Dario Argento, Bernardo Bertolucci e il più esperto Sergio Donati) con lui muore un’epoca intera, muore il concetto stesso di western tradizionale. Il silenzio pensieroso di Armonica viene interrotto dal fischio lontano di un treno in arrivo. Lo sguardo si perde all’orizzonte. La cinepresa sale e poi scende vertiginosamente nella vallata dove sta nascendo un nuovo villaggio, un nuovo paese, un nuovo popolo.

长达165分钟的《西部往事》*是西部片影史上最耀眼的一道暮光。影片的最后5分钟,有着苦难过去的孤独的枪手“口琴家”(Charles Bronson饰)见证了强盗Cheyenne的死,在最后一次的交火之后,“口琴家”与导演Sergio Leone以及他年轻的编剧们(Dario Argento,Bernardo Bertolucci,Sergio Donati)一道埋葬了一个时代,给传统意义上的西部片画上了句号。远处驶来的火车笛声打破了Armonica的沉默,他凝视的目光消逝在地平线上。镜头缓缓拉起推近山谷,那里,新的村庄,新的国家,新的人民正在诞生。

L’imperiale colonna sonora di Ennio Morricone conduce le danze, e guida la camera che corre sui binari, si sofferma sulle carrozze a cavalli, gli operai che scavano e picconano, i passeggeri che scendono con un salto dal treno ancora in corsa. Claudia Cardinale, la donna più bella del mondo, dà sollievo all’operosa popolazione di Sweetwater portando loro due brocche d’acqua per dissetarli. In disparte, forse escluso da questo quadro idilliaco, Armonica se ne va dall’altra parte trasportando il corpo senza vita di Cheyenne, prima di uscire di scena. Il futuro sta iniziando.

在Ennio Morricone深沉悠长的配乐声中,火车沿着铁轨疾驰而来,停在一辆马车边上,采矿工人从火车上跳下来跑远,世界上最美丽的女人Claudia Cardinale(在本片中饰演女主Jill McBain)拎着两壶水走进甜水镇上忙碌的工人中给他们倒水解渴。与这欣欣向荣的场面不太协调的是,“口琴家”骑在马上,右手牵着驮着死去的Cheyenne的尸体的马,缓缓走出了画面。未来正在到来。

“Che cosa hai fatto in tutti questi anni?” “Sono andato a letto presto”.

A proposito di Sergio Leone, solo un uomo di sport potrebbe recitare la storica battuta di Robert De Niro in C’era una volta in America senza risultare ridicolo, e quell’uomo è Paolo Maldini. Leone era maestro impareggiabile di flashback e si sarebbe trovato particolarmente a suo agio a raccontare la dinastia dei Maldini, l’ultimo esempio di aristocrazia rimasto in Italia.

导演Leone是独一无二的倒叙大师,如果让他像《美国往事》里讲述Roberto De Niro(在《美国往事》里饰演主角)的故事一样讲述一名运动员的故事,也许只有Paolo Maldini,意大利最后的贵族,是合适的人选。

Certamente avrebbe iniziato non dal principio, non dal 26 giugno 1968, giorno a cui risale la prima fotografia conosciuta di Paolo, e neanche dal primo provino per il Milan in cui il maestro chiese al padre del bambino “Dove vuole che lo faccia giocare?”, e Cesare gli rispose “Faccia lei”, e se ne andò. Ma avrebbe iniziato da splendidi momenti western pieni di silenzi e cura del dettaglio, proprio come Paolo Maldini stesso. La camminata nel tunnel ad Atene 1994, prima di affrontare da improvvisato difensore centrale la squadra più forte del mondo, il Barcellona di Romario e Stoichkov. O le barricate sugli attacchi dell’Inter nei minuti finali della semifinale di ritorno di Champions 2003, in balia di uno dei pochissimi giocatori in grado di far soffrire sempre Castore Maldini e Polluce Costacurta, l’imprendibile Oba Oba Martins.

Naturalmente, nonostante le nobili origini, la costruzione di un mito passa obbligatoriamente anche da una rigida educazione siberiana. Così, in omaggio a quel film sempre sognato e mai girato sull’assedio di Leningrado, Leone avrebbe dedicato lunghi frammenti all’ingresso di Paolino nell’età adulta, avvenuto a Udine in un pomeriggio freddissimo del gennaio 1985 che seguiva di pochi giorni una storica nevicata che aveva messo in ginocchio l’Italia intera, fino a provocare veri e propri disastri architettonici, come il crollo del Palazzetto dello Sport milanese costruito solo nove anni prima. Le leggende su quel secondo tempo si sarebbero sprecate: le scarpe più strette di due misure, Liedholm che gli chiede “Malda, vuoi giocare a destra o a sinistra?”, la sliding door del compagno di squadra Stefano Ferrari che sarebbe dovuto entrare al posto suo, e tanti anni dopo fu riportato alle cronache da Sky che era diventato un rappresentante di piastrelle. E ancora, ancora…

Un’altra vita
In questi tempi cinici, cosa porta il tifoso milanista a fidarsi a scatola chiusa di un Paolo Maldini dirigente di chissà cosa? È soltanto l’essere perdutamente innamorati di un’idea, l’inguaribile romanticismo rossonero velato di nostalgia dei bei tempi andati, che ultimamente ha rischiato spesso il capitombolo nella vieta retorica del “certi amori non finiscono”? La carica, inedita a queste latitudini, di Direttore Sviluppo Strategico Area Sport è stata illustrata solo in parte nella conferenza del 6 agosto. «Lavorerò in simbiosi con Leonardo» è stato il senso ripetuto più volte dai due Starsky & Hutch del nuovissimo Milan.

Ma forse il discorso non è questo, e stiamo guardando il dito invece che la luna. Forse tutte queste righe precedenti non si applicano a un uomo del calibro di Paolo Maldini. Maldini non è quel tipo di campione che “ora però spieghi” come sta recentemente capitando a Bonucci, o “a cui si perdona tutto”, come Maradona per i napoletani. Maldini non ha mai avuto nulla da farsi perdonare. La sua dirittura morale ha pochissimi esempi nella storia dello sport: Federer, forse Michael Jordan, nel calcio italiano solo Zoff o Scirea, campioni di un’epoca lontana, meno mediatica e rumorosa, dove vent’anni di carriera scorrevano a volte lisci come un paio d’ore.

Oggi che il tiro al piccione al personaggio famoso si è lentamente guadagnato il rango di sport nazionale, e nessun calciatore è stato immune troppo a lungo da polemiche sanguinose, da Totti a Buffon, da Del Piero a Vieri a Pirlo, fino ai Palloni d’Oro Baggio e Cannavaro, Paolo Maldini è stato la magnifica eccezione. Anche la delicata circostanza di essere allenato in Nazionale dal papà, che in altri contesti avrebbe sollevato feroci accuse di raccomandazione (da padre a figlio, ma anche viceversa), è stata affrontata e digerita come cosa normalissima, suffragata da fatti inoppugnabili: Paolo era il più grande difensore del mondo, Cesare era il commissario tecnico più vincente della storia dell’U-21.

Così Maldini ha attraversato le epoche sempre uguale, sempre marziale, sempre a testa alta. Mai un gossip sulla vita privata, che lo vede legato da trent’anni ad Adriana Fossa, che si innamorò di lui a San Siro vedendolo segnare un gol all’Avellino nell’autunno 1987 – e come in una commedia degli equivoci anni Ottanta, l’amica digiuna di calcio che si era portata appresso pensò che fosse dedicato a lei, quel grosso striscione in curva Sud con su scritto “Fossa”.

Nella sua infinita trasvolata rossonera è passato sopra oceani e città, l’avventuriero Farina, la colossale epopea del berlusconismo, otto allenatori diversi, vari amministratori delegati solitari o in coppia, centinaia di compagni di squadra, Istanbul, le luci di Marsiglia – «Fece bene l’UEFA a squalificarci!», sostiene anzi, ogni volta che viene interpellato sull’argomento – l’inesorabile depressione del post-carriera affrontata migliorando la volée di rovescio («Ma al primo punto mi sono stirato», dirà commentando l’esordio in doppio a livello ATP a 49 anni, in un torneo Challenger a Milano). Si è accostato al tritacarne dei social network senza fare rumore ma con carisma e poche nette parole. Solo la sera prima dell’annuncio si è lasciato andare a un attimo di vanità da neo-cinquantenne, esibendo i muscoli del capitano, con il sacco da pugile ben visibile sullo sfondo, sfoggiando uno sponsor tecnico diverso da quello nuovo che da un mese campeggia sulle maglie del Milan. Se deve mandare un messaggio comunica in inglese, se deve argomentare un concetto lo sviluppa in italiano, come ha fatto nell’ottobre del 2016.

Scrisse un lungo post su Facebook per giustificare i motivi del suo rifiuto alla proprietà cinese, con passaggi che oggi risultano profetici, come il non voler diventare un sottoposto del direttore sportivo Massimiliano Mirabelli. E una chiosa finale da conferenziere consumato, qualifica inusuale per Maldini che, per sua stessa ammissione nella conferenza di lunedì scorso, è diventato “un chiacchierone” solo di recente. «Io difendo il diritto delle persone a capo di Società importanti come il Milan di poter scegliere i propri collaboratori in base ai criteri a loro più idonei, anch’io farei la stessa cosa nella loro posizione, ma ribadisco anche che i miei valori e la mia indipendenza di pensiero saranno per me sempre più importanti di qualsiasi impiego».

Un’altra dote innata di Paolo Maldini è quella di saper spegnere le rarissime querelle attorno alla sua figura con un cenno della mano. Le uniche due vere polemiche della sua carriera furono subito derubricate a futili “non-polemiche”. La prima era legata alla sconfitta contro la Corea nel 2002, quando il piccolo Ahn gli saltò in groppa segnando il golden gol che eliminò l’Italia dal Mondiale nella triste notte di Byron Moreno. Qualche giorno dopo un incauto cronista gli chiese se si sentisse un giocatore finito. Lui lasciò correre e rispose con la miglior stagione della sua vita, coronata dallo storico trionfo di Manchester, quarant’anni e sei giorni dopo l’alzata di coppa di suo padre a Wembley (Cesare e Paolo Maldini sono gli unici padre e figlio che hanno alzato da capitani una Coppa dei Campioni).

La seconda polemica riguardò nel 2009 l’ultima partita a San Siro, “rovinata” – secondo la vulgata – dai fischi dei suoi stessi tifosi. Un argomento, questo, usato più spesso dalle tifoserie avversarie come arma derisoria verso i tifosi del Milan, che non un modo oggettivo di inquadrare la faccenda: a fischiare, per motivi ben poco calcistici, era stata la minoranza di una curva che è già, per definizione, minoranza di una tifoseria intera. E nessuno sentì mai di dover sposare le ragioni anti-maldiniane che, secondo il comunicato vergato il giorno dopo dai contestatori, affondavano le radici nella famigerata contestazione della Malpensa al rientro da Istanbul.

Tutti sanno che se in Milan-Liverpool 2005 c’era un giocatore incontestabile questo era certamente, ovviamente, Paolo Maldini. «Avevamo giocato una finale stupenda, nettamente meglio del Liverpool. All’aeroporto siamo stati contestati: dovete chiederci scusa. Io giocavo da una vita e dovevo chiedere scusa ad un ragazzo di 20 anni? E poi scusa di cosa? Di aver perso una perso una partita giocata in modo straordinario? Per inciso, quella sera il Liverpool ci surclassò a livello di tifo». E lunedì, interrogato sulla questione, la risposta di Maldini non avrebbe potuto essere più serena e pacificante: «I tifosi del Milan mi amano, il mio rapporto con loro è stupendo».

Insomma, non è mai stato aperto alcun fronte polemico credibile contro un giocatore da oltre mille partite ufficiali in carriera, di cui oltre cento in Nazionale, che ha perso quattro Mondiali consecutivi senza mai uscire sconfitto ai tempi regolamentari (tre volte fuori ai rigori, una al golden goal). Un giocatore che nessuno, da Ibrahimovic a Ronaldinho, da Alex Ferguson a Guardiola passando per Puyol, Lahm, Chiellini, ha avuto difficoltà a inserire in un’ipotetica top 1 dei migliori difensori di tutti i tempi.


UEFA Champions League Final: Liverpool v AC Milan
Paolo Maldini esce dal campo nella finale di Atene. Foto di Alex Livesey / Getty Images.

L’unica labile accusa che gli si potrebbe muovere è quella di essere nato “fortunato”, di nobile stirpe, già naturalmente indirizzato al successo. Certamente Maldini ha avuto la fortuna, negata a Baresi a inizio carriera, di schivare anni pessimi come quelli della doppia Serie B; ma si potrebbe obiettare che quegli anni splendidi dal 1986 al 2009 sono stati possibili anche grazie a lui, “il più forte difensore della storia del calcio, un Cabrini ancora più bravo a chiudere e non meno bravo ad attaccare”. Uno che ha rifiutato le danarose offerte di Arsenal, Manchester United e Chelsea a metà anni Novanta, quando il Milan prese improvvisamente a finire i campionati decimo o undicesimo, perché «andare via nei momenti bassi non si fa», e il riferimento al capitano uscente del Milan non è mai stato più fragoroso.

“Me lo impone la storia”
Se cercate indizi in grado di seminare il dubbio sulle reali capacità manageriali di Paolo Maldini, non è qui che li troverete. Forse non li troverete da nessuna parte. Perché ancora oggi, a cinquant’anni suonati, Maldini emana una luce accecante che non dev’essere troppo diversa da quella che investe Dante Alighieri nel canto XXXIII del Paradiso. È una frase che può suonare stucchevole nel mondo iper-cinico in cui viviamo, in cui persino il Papa, il Presidente della Repubblica e alcuni basilari principi scientifici vengono messi ferocemente in discussione.

Ma non è facile andare contro Maldini, che si porta a spasso da cinquant’anni quella regalità e quel portamento che gli danno sempre l’impressione di sapere perfettamente cosa sta facendo. Non è facile attaccare un uomo che esibisce pubblicamente la sua assenza di difetti e che certamente tra i tanti doni ricevuti dalla natura non ha avuto l’umiltà, ma quando decide di essere umile lo diventa sul serio, come per magia.

I giornalisti in conferenza stampa erano ancora più impacciati di lui, in quel frangente in cui sentivano il peso dell’obbligo di fargli delle domande il meno banali possibile. Nella sua mezz’ora abbondante di conferenza stampa a Casa Milan avrebbe anche potuto tacere, lasciando la scena al presidente Scaroni o al più disinvolto Leonardo, uomo di mondo, per tutte le stagioni, già meravigliosamente a suo agio nella nuova veste che probabilmente si è disegnato da solo anni fa in qualche atelier parigino.

Invece ha parlato, e nessuno ha mai avuto la sensazione che fossero parole di circostanza. Bisbigliava, attento a non andare mai fuori dai margini, che nessuno si azzardasse a pensare che a Maldini tutto è concesso e tutto è dovuto. È stata evidente, a tratti, qualche incrinatura della voce, così come la mano continuava a tremargli anche nei minuti seguenti, intervistato nella cornice più confortevole del canale ufficiale del club. Non avendo sulla schiena nient’altro che quelle sette lettere maiuscole, Maldini avrebbe dovuto e potuto porsi il problema di come giustificare quest’incarico così delicato: invece ha detto semplicemente «La mia storia mi impone di essere qui», come fosse un generale napoleonico, e nessuno ha avuto niente da ridire. Perché non c’è niente da ridire.

Sul primo piano finale di un uomo dallo sguardo fiero, tipico marchio di fabbrica di Sergio Leone, ci tocca tornare alla metafora iniziale. In questo struggente “C’era una volta al Milan” di cui non si conosce il finale, chi è Maldini? Non è il bandito Cheyenne, che prima di morire fa in tempo a essere buon profeta sulla brulicante new town che sta nascendo laggiù: «Sarà una bella città». Non è Claudia Cardinale che si dà da fare finalmente sorridente (per la professione che esercita nel film, qualche tifoso piuttosto sarcastico potrebbe paragonarla a Leonardo). Non è neanche Armonica, nonostante gli occhi azzurri, perché Maldini nel nuovo film ci rimarrà a lungo, probabilmente da protagonista.

E allora cosa stiamo dimenticando? Ma sì, la sinfonia di Morricone che avevamo nelle orecchie dall’inizio, fino a darla per scontata come fosse un elemento del paesaggio. Paolo Maldini è la grandiosa musica di sottofondo di un mondo che si rimette, finalmente, a lavorare.

https://www.ultimouomo.com/maldini-milan/

PAOLO MALDINI RETURNS TO AC MILAN

Accepts newly created role of Sporting Strategy & Development Director. The Maldini legend becomes a defining figure in the Club’s new era 

AC Milan’s new chapter is further marked by today’s appointment of Paolo Maldini (“Paolo”) as the Club’s new Sporting Strategy & Development Director. Paolo is a living legend in the Rossoneri’s history for his outstanding class, talent, leadership and loyalty, and his record of achievement is unmatched. Such qualities will play an instrumental role in returning AC Milan to greatness.

The “Maldini” name touches the hearts of all “Milanisti”, symbolising a reign of dedication and success. This history began with the unforgettable Cesare, Paolo’s father, captain of the team which won the first AC Milan’s Champions League trophy in 1963. The strength of Maldini’s dynasty is testified to by the vintage red&black #3 jersey, which has today been withdrawn and can only be worn by other Maldinis.

Paolo’s story at AC Milan is unparalleled, marking his player debut in Serie A at the age of 16 on 20th January 1985. Over the course of his career as a defender, Paolo won 26 trophies, including: 7 National Championships; 1 National Cup; 5 Italian Supercups; 5 UEFA Champions Leagues (playing in 8 finals, a record he shares with Francisco Gento); 5 European Supercups; 2 Intercontinental Cups, and 1 FIFA Clubs World Cup. Paolo retired at the end of the 2008/09 season after 25 glorious years wearing the red&black jersey, 419 of which were as captain and leader of the team.

Paolo ScaroniExecutive Chairman of AC Milan said: “There are few words to describe what Paolo Maldini represents for AC Milan. It was a privilege watching him as a player, winning countless trophies on the pitch, and I am excited and honoured to be working with him today in this new role. Paolo’s leadership and experience will benefit the Club greatly, as will his passion and energy. Today’s appointment is yet another sign of Elliott’s commitment to build a strong foundation for long-term success. It will not be easy and it will take time, but we have ambitious objectives, and Paolo’s appointment is an important step toward returning AC Milan to where it belongs“.

press conference has been arranged for Monday 6th August at 4:30 pm CET at Casa Milan. The conference will be broadcast live on Milan TV, and streamed via social media channels Facebook (Italian language), YouTube (English language).

https://www.acmilan.com/en/news/media/2018-08-05/paolo-maldini-returns-to-ac-milan

Paolo Maldini in visita nei vivai pistoiesi della Giorgio Tesi Group, scelti dal Milan come partner commerciale ..:: La Voce di Pistoia ::.. Notizie, News, Fatti, personaggi, politica della provincia di Pistoia

Notizie, News, Fatti, personaggi ambiente, cultura e tradizioni della provincia di Pistoia
— Read on www.lavocedipistoia.it/a24712-paolo-maldini-in-visita-nei-vivai-pistoiesi-della-giorgio-tesi-group-scelti-dal-milan-come-partner-commerciale.html

Nazionale, Maldini: “L’Italia deve tornare in alto, sono a disposizione”

La nomina di Costacurta come subcommissario potrebbe avvicinare l’ex compagno di squadra alla Figc. L’ex capitano del Milan: “Gran lavoro di Gattuso, merita la riconferma. Ai Mondiali tiferò Inghilterra”
di ENRICO CURRO’

MILANO – Paolo Maldini, alla soglia dei 50 anni (li compirà il 26 giugno) e a 9 dal ritiro dall’attività, resta un patrimonio sprecato del calcio italiano. Ma l’occasione di coinvolgerlo nel progetto di rilancio di un movimento in crisi stavolta sembra oggi più concreta che in passato: nel governo della Figc commissariata, col ruolo di subcommissario, c’è Alessandro Costacurta, un altro ex che conosce benissimo la bandiera del Milan e della Nazionale, suo compagno di squadra di una vita. Maldini stesso è possibilista, fermo restando che la discussione sull’eventuale ruolo non è ancora cominciata: “Sono disposto a parlarne: il calcio mi piace sempre molto, anche se non è detto che io debba per forza tornare a lavorare in questo mondo”.

Per il momento il ritorno è molto soft: sarà il protagonista per William Hill, storico bookmaker britannico, del progetto #ChiediloAlCapitano, interazione con i fan fatta di appuntamenti fissi sulla pagina Facebook di William Hill, con racconti, aneddoti e particolari inediti, in viva voce, dei suoi 25 anni da fuoriclasse. Ha cominciato subito con un video in cui racconta come, prima delle partite del Milan col Napoli nella vecchia palestra di riscaldamento a San Siro, lui e tutti gli altri giocatori delle due squadre si fermassero incantati a guardare i numeri col pallone di Diego Maradona.

Maldini, erano anni di gloria per il calcio italiano: altri tempi?
“Tempi diversi. Ma oggi, anche se il calcio italiano non è più quello che dominava negli anni Novanta e nei primi Duemila e anche se c’è qualche investimento economico in meno, l’Italia riesce a tirare fuori la fantasia e la grande preparazione tattica, che è del resto testimoniata dai nostri allenatori e dai loro successi all’estero”.

Lei è stato il capitano per definizione, oggi le cose sembrano cambiate anche in questo.
“A parte la Nazionale, dove la scelta è naturale perché la fascia tocca a chi ha più presenze, nei club in genere prevale la scelta dello spogliatoio. Al Milan è stata a lungo una scelta naturale anche quella: i tre capitani storici, Rivera, Baresi ed io, erano lì da tanto tempo. Di sicuro è un momento importante nella carriera di un calciatore, diventare capitano è anche una presa di responsabilità”.

Anche i social segnano un altro cambiamento.
“Ho due figli, di 21 e 16 anni, che mi hanno avvicinato al mondo dei social. C’è che lo odia e chi lo ama. Ma andando avanti saranno sempre più importanti”.

Lei ha sempre avuto pudore nel raccontare aneddoti della sua carriera.
“E ne ho ancora: per questo ho sempre rifiutato di scrivere libri autobiografici. In un libro del genere devi dire di te stesso il 100 per cento, altrimenti non ha senso, e nel caso specifico dovresti svelare i segreti di un gruppo coeso”.

Il gruppo del Milan di Gattuso sembra particolarmente coeso: la sconfitta in Europa League con l’Arsenal può averne intaccato la sicurezza?
“Questa partita non fa testo. Il lavoro di Rino è ottimo e i risultati lo dimostrano. Non è un allenatore solo grinta, le esperienze le ha atte prima di arrivare sulla panchina del Milan: magari in posti e squadre più lontani da riflettori, ma gli sono servite e hanno contribuito a creare un allenatore preparato”.

Suo figlio Daniel lo ha avuto alla Primavera.
“Si è trovato molto bene nel ritiro, al quale sono stati aggregati lui e altri ragazzi più giovani rispetto alla categoria. È stato un po’ come fu per me ai miei tempi quando in Primavera trovai Capello: sotto queste guide inizi a vedere il calcio in maniera diversa”.

Gattuso merita la riconferma?
“Credo di sì. La situazione era compromessa e le cose, da quando è arrivato lui, sono incontestabilmente cambiate”.

Da compagno di squadra era già così?
“Nelle squadre vincenti ci sono tanti calciatori con una personalità forte. Lui dava qualcosa in più, sotto questo punto di vista: non solo fuori, soprattutto in campo”.

È possibile la rimonta con l’Arsenal?
“In teoria sì, ha preso tre gol da squadre decisamente più scarse del Milan, che ha pagato l’abitudine maggiore degli avversari alle gare internazionali, il ritmo, il fatto che in Europa molte cose siano diverse, incluso l’arbitraggio”.

In questi giorni il dibattito è su un altro suo compagno storico come Buffon: smettere o continuare?
“Dipende da come ti senti, è sempre una scelta molto personale. Io, negli ultimi anni, firmavo sempre un contratto di anno in anno proprio per questo. L’ultimo lo firmai con le stampelle, mi ero appena operato”.

Il calcio italiano può davvero tornare ai bei tempi, a parte la fantasia e l’ingegno tattico di cui lei parla?
“Che ci sia una fase di crisi lo dimostrano i risultati: la nazionale non è andata al Mondiale dopo sessant’anni e non siamo più ai famosi tempi delle sette sorelle con i loro grandi investimenti. La Juventus resiste in Champions perché è tra le grandi d’Europa in tutto, lo si vede dal fatturato. Le altre non hanno la stessa possibilità d investire, ma giocano bene, come Napoli e Lazio: i tecnici italiani sono superiori agli stranieri”.

Bisogna rassegnarsi a restare in seconda fascia?
“Spero proprio di no. La situazione ora è chiara, c’è stato il commissariamento di Figc e Lega: i momenti negativi offrono la possibilità del cambiamento”.

Le piacerebbe farne parte?
“Io sono disposto a parlarne, ci sono persone che stimo e delle quali penso di avere la stima. Il calcio mi è sempre piaciuto molto e continua a piacermi, ma da qui a dire che ci sarà un coinvolgimento ce ne corre. Vedremo”.

È pentito di avere detto no al Milan?
“No, era una scelta ponderata, razionale”.

Il Milan, ora che ha compromesso il cammino in Europa League, può ancora raggiungere la Champions attraverso il quarto posto in campionato?
“È difficile e questa sconfitta con l’Arsenal non ci voleva, perché può avere minato un po’ di sicurezze: quando insegui e cadi una volta, ti sembra che l’obiettivo si allontani. Ma continuare a credere è necessario: certo non si deve sbagliare nulla”.

Il Mondiale senza l’Italia: che effetto le fa?
“E dura. Ero a San Siro coi miei figli, per Italia-Svezia, e alla fine ci siamo guardati increduli e ci siamo detti: e ora? Provo tristezza”.

Ha sbagliato Ventura?
“Ma no, non ha sbagliato solo lui. È stata una somma di errori. Quello principale è stato non avere più messo il calcio, a un certo punto, al centro del progetto della Figc”.

Un nome per il prossimo ct?
“I nomi sono quelli che si leggono, anche se molti sono allenatori sotto contratto. Anche la soluzione Di Biagio può valere”.

Chi vincerà il Mondiale?
“Le favorite sono sempre le solite. Mi piace molto l’Inghilterra”.

Di solito arriva a fine stagione molto stanca.
“Non è un caso che anche in Premier League si inizi a chiedere la sosta invernale. Non è per andare in vacanza alle Maldive, come ho sentito dire spesso. È perché la sosta è necessaria ai calciatori”.

http://www.repubblica.it/sport/calcio/2018/03/09/news/paolo_maldini_nazionale_milan_champions-190875524/?ref=search

Leonardo Bonucci: «Il ruggito di mio figlio, prima dell’operazione»

Leonardo Bonucci: «Il ruggito di mio figlio, prima dell'operazione»SFOGLIA GALLERY

Mentre lancia il suo nuovo progetto digitale con H-Farm, il difensore del Milan torna ai «giorni terribili» in ospedale con suo figlio: «Serve coraggio, come il mio Matteo che prima di entrare in sala operatoria mi fece il verso del leone»

 

https://www.vanityfair.it/sport/calcio/2018/02/03/leonardo-bonucci-ruggito-figlio-prima-operazione

Gazzetta: Maldini vota Gattuso E anche… Tommasi

●L’ex capitano: «Date tempo a Rino e non chiedetegli la Champions. Italia senza Mondiale? Non si è colta la gravità, io sto con Tommasi»

La Gazzetta dello Sport24 Jan 2018

G.B. Olivero INVIATO A BIELLA

Il bisogno di regole e il rispetto delle stesse sono alla base della vita e quindi anche del calcio. Tra i numerosi cimeli presentati ieri all’inaugurazione della mostra «Il mito del calcio», ce n’è uno particolarmente significativo: le regole di comportamento per i convocati in Nazionale, scritte a mano dall’allora c.t. Vittorio Pozzo. Altri tempi? Certo. Ma senza voler cedere alla tentazione di guardare indietro con eccessiva nostalgia, la deriva del calcio italiano dimostra che di regole ce n’è parecchio bisogno. Così come delle persone giuste per tracciarle e poi farle rispettare. Paolo Maldini è cresciuto con un esempio in casa: il papà Cesare aveva indicato la strada giusta. E Paolo fa lo stesso con i suoi figli: «Ho lasciato che fossero i loro allenatori a parlare di tecnica e di tattica. Io ho solo spiegato come bisogna comportarsi in campo: da uomini, non solo da calciatori». Rino Gattuso ha avuto un percorso differente, dalla Calabria è finito in Scozia, ma come Maldini ha fatto del rispetto delle regole uno stile di vita. Ci sono valori che si possono insegnare solo se li hai dentro di te in modo naturale, come ad esempio la serietà nel lavoro e il senso di appartenenza, si tratti di una squadra di calcio o di un’azienda. Al Milan Gattuso non sta solo allenando: sta educando. Forse anche per questo motivo Maldini ne applaude il lavoro: «Rino sta dando idee di gioco e sta trasmettendo le sue convinzioni. Si vede anche dall’intensità degli allenamenti. Si è trovato in una situazione complicata, ma adesso sta raccogliendo i primi frutti. Naturalmente ha bisogno di tempo». Sembrava più che altro che fosse un allenatore a tempo e invece le cose stanno cambiando. Gattuso potrebbe meritarsi la conferma: «Sarà valutato in base ai risultati, ma è chiaro che non gli si può chiedere la qualificazione alla Champions. Quello era l’obiettivo di inizio stagione, ma poi la realtà si è dimostrata diversa». Sembra che con Gattuso tutta la squadra abbia capito meglio cosa significhi indossare la maglia del Milan: «E’ difficile parlare di senso di appartenenza dopo che sono cambiati i dirigenti, molti allenatori e quasi tutti i giocatori. Però il calcio non è solo tecnica e tattica: è anche mentalità, capacità di stare in gruppo, sacrificio. E Rino può trasmettere i valori giusti».
MONDIALE E FIGC Maldini ha partecipato con Roberto Bettega e Damiano Tommasi all’inaugurazione della mostra (Biella, Palazzo Ferrero e Palazzo Gromo Losa: interessante per adulti e bambini) che in parte è dedicata a Vittorio Pozzo, di origini biellesi e sepolto a Ponderano. Tra i cimeli ce ne sono molti sulla Nazionale ed è inevitabile discutere con Paolo dell’eliminazione dell’Italia dal Mondiale e delle prossime elezioni federali: «Brucia ancora… Una sensazione bruttissima. Ma temo che non si sia colta la gravità di quello che è accaduto. Per due settimane c’è stata una sollevazione popolare, poi tutto è tornato come prima. C’è un sistema difficile da scalfire. Credo che vada supportato Tommasi che ha avuto il coraggio di candidarsi e ha la conoscenza per rimettere il calcio al centro del programma».
PARLA PAOLO «Sistema difficile da scalfire. Damiano ha coraggio e conoscenze»
«Buffon portiere top degli ultimi 30 anni, onorato se farà più presenze di me in A»
BUFFON E IL RECORD Intanto un amico, compagno e avversario di Maldini sta per compiere 40 anni e difficilmente batterà il record di presenze in Serie A detenuto proprio da Paolo: «Buffon ha solo 40 anni? Impossibile… Scherzi a parte, non ha ancora annunciato che smette di giocare. Se non dovesse battere il mio record sarei contento per me, ma se invece ci riuscisse sarei onorato che fosse lui a superarmi. E’ il più grande portiere degli ultimi 30 anni».

 

Mio marito Borgonovo, il più figo di tutti

«Mio marito Borgonovo, il più figo di tutti»
Stefano Borgonovo con Roberto Baggio e Paolo Maldini 

Chantal, la moglie del campione scomparso nel 2013, racconta in un libro, e in questa intervista, la battaglia contro la Sla. E l’amore che li ha legati fino alla finedi Angelo Carotenuto

Certe vite si sconvolgono in sordina, le tragedie si fanno annunciare da dettagli che paiono trascurabili. La vita di Chantal Guigard cambiò quando le consonanti pronunciate da suo marito iniziarono a incepparsi. Prima la “r” poi la “t” e dopo la “f”. Che sarà, niente, forse lo stress. Invece era la Sla, sclerosi laterale amiotrofica, da quel giorno in casa detta «la stronza» perché «i malati diventano sottili, figure di carta, fili» e quando la Sla entra in una famiglia «nessuno si salva, nessuno rimane immune». Chantal è all’epoca una donna quarantenne, sposata da venti e innamorata da sempre di Stefano, che di cognome fa Borgonovo e di mestiere faceva gol, tanti, per la Fiorentina, per il Milan, in Coppa dei Campioni, con la Nazionale, e poi in un calcio più piccino perché questo è il ciclo naturale, si parte, si sale, si scende.

Chantal erastata «una bambina silenziosa». Racconta al telefono: «Osservavo molto, ero curiosa. Mia madre mi definiva con due parole: “lei legge”. Come a dire che me ne stavo con la testa tra le pagine, persa, era la mia tana. Avevo poche cose, quelle giuste, poche e sudate. Sono cresciuta in modo diverso da come poi avrei tirato su i miei figli. Papà era un impiegato e poiché portavamo questo cognome francese per via di un bisnonno della Lorena, decise che noi figli dovessimo tutti avere un nome straniero. Così io sono Chantal, mia sorella Yvonne, mio fratello Alain».

Chantal aveva sposato Stefano molto presto, lei poco più che una ragazzina di Giussano, lui giovane promessa del calcio, persi uno per l’altro dopo un bacio al caffè a una festa. Sapevano bastarsi. Lo aveva sposato in una chiesa piccola e tenuta nascosta alla folla, un po’ per la fede di lui, credente in Dio ma non solo («credeva nelle cose belle e in quelle giuste, credeva nel bene, credeva nel calcio, nei minuti di recupero pieni di possibilità, credeva nel quotidiano e nell’eterno, credeva nell’amore e credeva in noi») ma pure perché «non si può stare insieme una vita senza l’aiuto di qualcosa di magico». Questa lunga catena di attimi uno accanto all’altra, dagli stadi al respiratore automatico, sono raccontati con potenza rara in Una vita in giocoscritto con Mapi Danna (Mondadori Electa), in uscita il 19 settembre, a quattro anni dalla morte di Stefano e a nove di distanza da una partita a Firenze, dove l’idolo Borgonovo si mostrò a 27 mila persone sulla sua sedia a rotelle, accanto agli amici Baggio e Maldini, potendo ormai muovere solo gli occhi.

Con gli occhi, strizzandoli, aveva comunicato ai medici il suo consenso a rimanere in vita grazie a una macchina, un sì che fu come un altro matrimonio. Con gli occhi, puntandoli su una tastiera, ha continuato a chiamare con voce sintetica la sua Cha, restando acceso, prima nascosto al mondo e poi esposto, passando «dal vuoto pneumatico al circo», lui e la sua donna («mi sentivo Rambo e Cenerentola»), «due fighi guerrieri», le colonne «di una famiglia anomala, elastica, incasinata, piena di sfumature, nodi e spigoli», con quattro figli costretti a crescere in fretta e la mamma di lui un giorno allontanata perché non reggeva il dolore: «L’ho chiusa fuori di casa. Non le ho mai più permesso di entrare».

Gli stessi occhi dentro cui fino all’ultimo giorno Chantal scrive d’aver trovato desiderio e attrazione fisica: «Il bacio di Stefano è cambiato nel tempo, da luna park a roccaforte, ma è rimasto vivo, intenzionale, anche negli anni della lingua immobile. Usava le pupille, mi baciava più profondamente di prima». Loro che un tempo facevano l’amore due volte al giorno, «continuavo a sperare di piacergli, volevo che mi amasse e non ho mai smesso di restargli fedele. Ero giovane, piacevo, ma nessuno piaceva a me». Neppure Beckham, che un giorno si presenta a casa in tutto il suo splendore, e alla fine fa pensare a Chantal che «Stefano è sempre il più figo».

La storia dei Borgonovo – Stefano e Chantal, Chantal e Stefano – è esplosiva perché non è esemplare. Non sono disegni di Peynet. C’è lui che la molla in strada dopo una sfuriata. «Quando decidevo di essere irritante, precisa, soffocante, ci riuscivo alla meraviglia. Venderei tutto per avere un frammento di quella tensione». C’è la freddezza di lei perché Stefano da Udine non torna a casa per mesi e quando si decide, «non poteva arrivare splendente e pensare di trovare una geisha. Non è delle geishe desiderare, io invece desideravo e lui si era sottratto».

Lei, Chantal, che si mette in viaggio e lo raggiunge perché un amico al telefono le accende in testa una spia, ma non chiede, non domanda, «non perché non fosse importante per me sapere se davvero ci fosse stata o se stava per esserci un’altra donna. Non avrei retto all’immaginazione, alla visione di lui con un’altra». Non ha voluto saperlo, «mi commuove l’idea che una notte, di mille anni fa, forse, abbia fatto lui qualcosa di ingiusto e, se fosse stato, spero che gli sia piaciuto». E ora scrive: «Non venire a dirmelo in sogno». Una vita da nomadi, da calciatori, traslochi, affitti, scuole private per i bambini e non per snobismo, ma perché alle pubbliche non hai fatto la pre-iscrizione quando non sapevi che stavano per venderti. «Le mogli dei giocatori hanno una grande responsabilità. I calciatori professionisti rinunciano alla leggerezza, all’inadeguatezza, al poter essere insicuri, complicati, alla ricerca di se stessi, come sarebbe di diritto per qualsiasi diciottenne».

Questi sono stati Stefano e Chantal, e lo sono ancora. Una Fondazione porta avanti l’impegno contro la Sla, malattia che tra il 2004 e il 2008 ha contato 43 casi tra gli ex giocatori italiani. Per l’abuso di antinfiammatori, si dice, per lo stress, i pesticidi nell’erba. Per questo si leggono parole amare verso la Federazione internazionale (la Fifa). «Non accetto che non mi aiuti, ho incontrato il suo presidente Infantino, mi ha dedicato del tempo, ma con tutti i mezzi economici di cui dispone, il calcio non può non fare chiarezza, fosse anche per escludere un nesso. Eppure il mio nipotino di sette anni gioca a pallone, nella scuola calcio di Stefano, e ce lo mando tranquillamente. Quando c’era Stefano, il calcio era lui. Ora sono informata ma mi fa male guardare una partita».

Chantal confessa che ci sono giorni in cui tra le mani stringe certe vecchie foto. «Il primo anno senza Stefano ho quasi solo dormito, il secondo ho quasi solo mangiato, il terzo non sapevo cosa fare». Il giorno in cui la trachea di Stefano collassò, era a 208 chilometri di distanza. Non si allontanava da mesi. Era andata a Zogli, a sistemare la casa per portarlo in vacanza. «Speravo di accompagnarlo fino all’ultimo, non ci sono riuscita, con il tempo mi sono detta che è stato meglio ricevere una telefonata da mia figlia anziché essere stata costretta a farla io». Scrive Chantal che «le sconfitte ti entrano in casa, come il polline ad aprile: primavera o allergia a seconda dei casi».

LA LETTERA DI ROBERTO BAGGIO

Caro Stefano,
il tuo viaggio celeste è da tempo iniziato e mi auguro che sia per te ricco di luce e di serenità.
Affinché la tua valorosa battaglia possa essere d’aiuto alla ricerca e possa soprattutto donare sostegno per chi lotta e chi soffre, la tua amata sposa Chantal, una grande donna, ha scritto un libro. Leggendolo, mi sono ritrovato con una penna tra le mani, quando un tempo era il pallone a unirci: un pallone che faceva girare i nostri sogni e il nostro futuro.
La passione che leggevo nei tuoi occhi, unita a quel tuo sorriso gioioso e scanzonato, era la nostra via dove incontrarci.
Quello che ci univa era una formula magica, passata alle cronache sportive come “B&B”: tu ed io a correre nello spazio, sapendo dove ci saremmo incontrati per un assist o per un goal.
Quel tuo spazio oggi è chiamato da molti Paradiso, da altri Eternità, oggi per me è «la tua porta nel cielo»!
Sempre ci ha uniti, ci unisce e ci unirà la nostra sincera amicizia. Sei lontano ora, eppure Chantal e i tuoi meravigliosi figli ti sentono, come del resto chi ti ha amato e ti ha voluto bene, così vicino da poterti ascoltare!
Forte e potente arriva ai nostri cuori la forza e la tua formidabile sfida alla «Stronza», così hai voluto chiamare la malattia che ti ha portato con sé. Non sapeva, la «Stronza» quale avversario avesse scelto! Non immaginava, la «Stronza» di trovarsi a marcare un attaccante vero, un guerriero che fino all’ultimo ha saputo incoraggiare e sostenere chiunque!
Caro amico mio, hai saputo offrire un esempio valoroso di come si possa, seppur privati della voce e del movimento, essere fino all’ultimo un grande padre e un marito grande. Quando ti penso, sono infinite le immagini che mi scorrono davanti agli occhi, così come sono scintillanti i ricordi che ci legano.
Come sai, non amo molto raccontarmi e prediligo l’intimità all’esternazione, motivo per cui quelle immagini e quei ricordi preferisco custodirli nel mio cuore come un prezioso tesoro da proteggere all’usura del tempo.
Allora ecco che questa mia lettera vuole essere solamente un “soffio” leggero e non per questo priva della sua forza, per far giungere a te, mio caro amico per sempre, il mio più profondo rispetto e tutto il mio affetto.
Ti voglio bene.

Roberto

(15 settembre 2017)

https://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2017/09/14/news/stefano_borgonovo_roberto_baggio_chantal_guigard_sla-175485387/

Maldini, l’esilio di una bandiera: “Che amarezza il Milan senza magia” – Repubblica.it

Intervista a 360 gradi all’ex capitano rossonero. “Io escluso, ma indipendente”. Il rapporto con Berlusconi, il disinteresse per la politica, le valutazioni sulla fase attuale del calcio italiano e sul momento della squadra della sua vita
di ENRICO CURRO’

MILANO – La casa di Paolo Maldini non è lontana dallo stadio della sua vita: quando c’è la partita, il frastuono delle auto e delle moto dirette a San Siro si può sentire un po’ ovattato, se si porge l’orecchio alla processione pagana, che sfiora inconsapevole la tana dell’eroe di un tempo ancora molto vicino. Oggi non è giorno di partita e nemmeno di scuola e di lavoro. Nel salone bianco, dove non c’è traccia ostentata del fresco passato di uno dei più grandi campioni del calcio italiano, l’imprenditore Maldini ne parla con amore intatto e senza malinconia, mentre i figli  Christian e Daniel s’affacciano a salutare. E’ quello che appare: un uomo di 44 anni, realizzato e soddisfatto di se stesso e della propria famiglia, un ex calciatore famoso che non ha bisogno del calcio per vivere. E’ assai più probabile che il calcio italiano, in crisi tecnica e etica,  abbia bisogno di lui. Invece, tre anni e mezzo dopo Fiorentina-Milan del 31 maggio 2009, il suo passo d’addio, continua lo spreco di un fuoriclasse che gli altri ci invidiano anche per l’intelligenza e l’immagine.

NIENTE POLITICA
Maldini, è vero che lei si candiderà per le elezioni politiche nel partito di Berlusconi?

“Io parlo poco, da quando ho smesso di giocare, e in quelle poche occasioni spero di essere chiaro. Eppure ogni tanto escono notizie false. Non è assolutamente vero. Non ho mai ricevuto proposte. Berlusconi, dal 2009 a oggi,

cioè dalla mia ultima partita a San Siro, l’ho visto soltanto alla festa dei suoi 25 anni di presidenza. Poi non l’ho mai più sentito. Inoltre, anzi soprattutto, entrare in politica non è una mia aspirazione”.

Il calcio ai calciatori e la politica ai politici. 
“Ma no, i calciatori sono uomini come gli altri, e magari possono essere particolarmente sensibili a certe problematiche. Solo che a me la politica non interessa”.

Alcuni suoi ex compagni, come Kaladze in Georgia, Shevchenko in Ucraina e Weah in Liberia, sono diventati politici.
“Ma loro rappresentano dei simboli, nei rispettivi paesi, paesi con situazioni particolari. L’Italia è, o  dovrebbe essere, un paese con una democrazia un pochino più solida”.

Lei, invece, è certamente un simbolo del Milan. E’ soltanto perché Berlusconi non l’ha più chiamata che lei non è ancora entrato nel club?
“No. E’ perché il Milan, giustamente, fa le sue politiche: le decidono il presidente e la dirigenza ed è normale che sia così”.

Però sono già passati 3 anni e mezzo dal suo ritiro: in questo modo non rischia ormai un futuro lontano dal calcio?
“Sì, ma la cosa non mi spaventa. Ho fatto così tanto, nel calcio, che nulla mi toglierà mai quello che c’è stato per 31 anni, da quando cominciai nel settore giovanile del Milan. Il “rischio” di restare fuori dal mondo del calcio, oggettivamente, esiste. Io ho avuto un passato e un legame così forte col Milan che è difficile immaginarmi dentro un’altra realtà, anche europea: le possibilità si assottigliano”.

Elenchiamole.
“Con una premessa indispensabile, però. Io non mi sto offrendo al Milan. Io faccio l’imprenditore nel settore immobiliare, ho iniziato quando ancora giocavo e ho ormai un’attività avviata, fuori dal calcio. Se però parliamo di calcio e di quale ruolo potrei avere nel calcio, io rispondo alle domande”.

Allenatore?
“Mai preso in considerazione, perché ho visto mio padre e la vita da nomade che faceva. Non fa per me. E poi, se uno fa l’allenatore, deve aprire a tutte le possibilità, come ha fatto legittimamente Leonardo: non può pensare di allenare solo il Milan. Perciò, visto che io non penso di potere lavorare in un altro club italiano, le possibilità che io alleni sono pari allo zero. E in un altro paese poco di più”.

Rimane l’incarico dirigenziale.
“Non mi piace la politica, quindi dovrebbe essere qualcosa di legato al calcio in senso stretto”.

Cioè?
“Io posso portare la mia conoscenza calcistica: la valutazione dei calciatori e un’esperienza che ho acquisito nella mia lunga carriera. Io credo di avere vissuto tutta l’evoluzione del calcio moderno, quindi  sì, potrei fare il dirigente. Nel calcio non è che abbondi la gente competente al 100%. C’è chi si è inventato il lavoro, ma non sempre trovi chi sa di tattica, di calciatori, di psicologia calcistica. Gli anni da capitano del Milan, dal ’97 in poi, mi sono serviti tanto. L’ho fatto anche in Nazionale, dal ’94 al 2002, ma è stato diverso: in Nazionale gestisci l’evento, nel club la quotidianità. E impari tantissimo”.

La Figc, la Fifa o l’Uefa?
“Non ci ho mai pensato sul serio. Un ruolo tanto per averlo o un incarico di rappresentanza non mi interessano”.

UNA RISORSA SPRECATA
Intanto lei è una risorsa inutilizzata: non si sente uno spreco?
“Bisogna vedere se io vengo visto come una risorsa o come un problema. Vuole che le dica che cosa mi dà veramente fastidio?”.

Prego.
“Parliamo del Milan, perché io ho avuto la fortuna di partecipare a 25 anni splendidi. Beh, quando sono arrivato, io ho trovato già una grande base per costruire una grande squadra: grandi calciatori e grandi persone. Berlusconi  è arrivato e ci ha insegnato a pensare in grande. Certo, con gli investimenti, perché comprava i migliori. Ma lui ci ha messo la mentalità nuova, soprattutto: Sacchi e l’idea che il club dovesse diventare un modello per il tipo di gioco, per le vittorie. Insomma, si è creato veramente qualcosa di magico, grazie alla personalità di chi già c’era e di chi è arrivato”.

Poi?
“Poi, a poco a poco, questo si è perso e il Milan si è trasformato, da squadra magica, in una squadra assolutamente normale. E sa perché? Perché – a differenza di tanti grandi club europei con un passato simile, tipo Real, Barcellona e Bayern, dove chi ha scritto la storia della squadra è andato a lavorare lì per trasmettere ai giovani quello che aveva imparato  –  nel Milan la società stessa ha smesso di trasmettere quel messaggio, al di là degli investimenti. All’interno del Milan attuale non c’è nessuno, tra quelli che ne hanno fatto la storia, ad avere un ruolo non marginale”.

Il paragone è col Bayern?
“Esatto, ma non solo. Guardi la storia del Bayern e del Real e i ruoli che hanno avuto nel tempo Beckenbauer, Hoeness, Rummenigge, Butragueño, Gallego, Valdano. Anche ai nuovi che arrivano, questa guida e questa magia sono più facili da trasmettere attraverso chi l’ha provata e anche creata. Il Milan è sempre stato una grande squadra, anche ai tempi di mio padre. Ma la grande magia c’è stata per 25 anni. Poi s’è persa”.

E’ un processo irreversibile?
“Valutare la programmazione di questo Milan è difficile. In estate sono andati via 12 giocatori di grande personalità e non mettere in conto un inizio di stagione complicato mi sembra non programmare il futuro e aspettare il mercato invernale. Dove di affari veri, in genere, se ne fanno pochi”.

Galliani, però, ha spiegato spesso che era tutto previsto e che questo è l’anno 1.
“Io vedo sinceramente poca programmazione. Magari mi sbaglierò, ma certe scelte di giocatori, anche se a parametro zero, sono lontane dall’idea di un programma studiato”.

Berlusconi ha appena parlato di una nuova politica, basata solo sugli Under 22.
“Quelli davvero bravi costano dai 20 milioni in su e non ce ne sono tanti. Abbassare il monte ingaggi e ringiovanire la rosa è fondamentale, d’accordo. Ma la valutazione dei giocatori non so da chi venga, visto che Braida fa sempre meno quel lavoro”.

Ci si affida sempre a un procuratore di riferimento, come Raiola. 
“E’ la logica degli ultimi anni. Le racconto una cosa. Gli ultimi due allenatori hanno cercato di portarmi dentro. Leonardo mi voleva a Milanello: “Anche senza fare niente – mi diceva – solo con la tua presenza”. Ma io gli risposi che non aveva senso presentarmi a Milanello senza un ruolo”.

Lei avrebbe fatto il direttore sportivo?
“Galliani, in presenza di Leo, mi disse che il ds è una figura non esiste più e che il Milan era a posto in quel ruolo. A me sembra invece che ci sia carenza”.

LA CHIAMATA DI ALLEGRI
E Allegri?
“Allegri, l’anno scorso, mi disse che aveva bisogno di qualcuno che controllasse anche lui: “Paolo, chi mi dice se ho sbagliato qualcosa anche tatticamente e nella gestione dello spogliatoio, che ricade solo su di me?”. Gli serviva uno che avesse la personalità per parlare con i giocatori importanti – con Ibra, con Boateng, con altri  –  in modo autorevole. E lui pensava che io, col mio passato, potessi farlo”.

Può raccontare i dettagli di quella proposta?
“Max mi chiamò quando ero in vacanza negli States, dicendomi appunto che mi voleva parlare, perché aveva bisogno di me per gestire il gruppo. Ci siamo visti, ci siamo sentiti al telefono e io lo avvisai che questo avrebbe potuto rappresentare un problema per lui. Allegri mi disse che aveva parlato con la società e che sembrava tutto ok. Poco dopo, via sms, mi scrisse che mi avrebbe chiamato entro pochi giorni. Era l’ottobre del 2011, non l’ho più sentito. Io non ho mai cercato nessuno, lo ripeto. E’ stato sempre il contrario”.

Qual è oggi il suo sentimento verso il Milan?
“Mi capita di ripensare al passato. Eravamo coscienti del nostro ruolo. I giocatori facevano i giocatori, i dirigenti i dirigenti. Ognuno si prendeva le proprie responsabilità, senza ingerenze. C’era talmente tanta conoscenza della materia calcio a livello globale… Solo uno stupido non assorbe nozioni dal lavoro che fa e noi eravamo proprio una squadra”.

La sensazione comune è che Galliani non la voglia.
“Può darsi. E’ il dirigente che ha vinto di più ed è anche legittimo che faccia le sue scelte e si scelga i collaboratori in cui crede. Ma vorrei sfatare la diceria che io sarei uno della famiglia. Non è vero: non mi vogliono così spasmodicamente”.

Quindi il sentimento è di delusione?
“Direi di amarezza, e non solo mia. Amarezza perché tutto quello che si è creato insieme si è dissolto. E’ la stessa sensazione di molti miei ex compagni. Non è scontato che si crei la magia che noi abbiamo vissuto. Ecco, io, vorrei restituire, tutto qui. Ho dato più di qualsiasi altro nella storia del Milan, ho giocato più partite di tutti. Ma sento che quello che ho ricevuto è ancora di più. Sento un debito di riconoscenza”.

Ne ha mai parlato con Berlusconi?
“Lo dissi al presidente prima di smettere. L’aspetto economico non è una leva che può fare effetto su di me. Il lavoro di ognuno di noi va pagato nella giusta maniera, ma non è quello a decidere. E neanche può contare lo stare sotto i riflettori: io ho avuto anche troppa sovraesposizione mediatica, per il mio carattere schivo. Piuttosto, la soddisfazione di fare qualcosa di travolgente, di passionale, non ha prezzo: soprattutto verso un club che mi ha dato tutto ciò che ho appena detto”.

Eppure quella dell’eterno ex campione sembrerebbe una bella condizione.
“Io ho avuto la fortuna dell’indipendenza di lavoro e di pensiero e me la tengo, quindi dico ciò che penso. E penso che molti calciatori abbiano tante cose da dire e da fare. Il calciatore, secondo me, dovrebbe avere più coscienza del proprio ruolo. E’ difficile cambiare le cose, finché uno non le vuole cambiare veramente. Serve un po’ più di coraggio, nella vita. Prendiamo, ad esempio, la questione delle frange violente del tifo”.

Allude al suo dissidio con gli ultrà?
“Io fui contestato, nella mia ultima partita a San Siro, perché sono sempre stato indipendente e non mi sono mai piegato a quel tipo di logica. Le società, nei rapporti con i violenti, devono essere più coraggiose. Stadi vecchi e petardi: non è questa la mia idea del calcio del futuro”.

Se la Figc le proponesse un incarico su questo tema?
“Indipendentemente da me, questo potrebbe essere un ruolo quasi federale. Ma c’è voglia di cambiare? La legge sugli stadi è ancora nel cassetto, dopo tre anni”.

IL CALCIO AI CALCIATORI 
Anche da spettatore, lo si avverte parlandole, lei segue il calcio con lo stesso amore di quando giocava.
“Io per questo sport provo eterna gratitudine, il mio è un amore passionale. A me piace andare allo stadio. Quest’anno ho visto Juve-Chelsea anche per vedere lo stadio nuovo della Juve. E ho trovato una squadra che gioca un calcio moderno in uno stadio moderno. L’Italia si butta addosso anche colpe che non ha. La Juve è di livello europeo, è una tra le prime 5-6 come tipo di gioco. Per il resto, in Italia, provo una tristezza enorme per gli stadi vuoti: il paragone con la Germania è avvilente. Negli ultimi anni San Siro è spesso una desolazione. Almeno, però, hanno rifatto il campo”.

Era il suo incubo personale: lo verniciavano per farlo sembrare bello e lei s’infuriava.
“Già. Era pericoloso per noi e nocivo per lo spettacolo. Il mio rimpianto è che abbiano risolto il problema quando io ho smesso. Ma quanto tempo è dovuto passare! E c’è voluta una figuraccia a livello europeo, perché il Barcellona si è lamentato del terreno. Io vedo dal vivo anche altri sport e mi sono convinto che gli stadi siano una priorità”.

Allude agli stadi americani?
“Alludo alla Germania, dove il Mondiale 2006 ha cambiato tutto, e agli sport americani, al basket e al baseball, che pure non sono i miei sporti. Vado a New York a vedere i Knicks o gli Yankees ed è uno spettacolo, nel rispetto dello spettatore. Noi siamo il paese del turismo, ma  ce lo siamo dimenticati. Dopo Italia ’90 siamo tornati indietro: non abbiamo sfruttato l’occasione. Siamo vecchi”.

Anche tra i dirigenti?
“Alla cerimonia della Hall of Fame ho incontrato Albertini, che fa il vicepresidente federale. Con Tommasi, presidente dell’Aic, è l’unica faccia nuova del calcio negli ultimi 25 anni. Ho grande rispetto per chi è lì da 30 anni ed è una persona perbene. Ma un trentacinquenne vede le cose diversamente da un settantenne. Il calcio, come tutte le cose al mondo, cambia”.

Il suo slogan è: più calciatori nel governo del calcio?
“A me sembra che si debba aprire la mente, guardando anche gli altri sport che generano grandi introiti. Non ci si può consegnare al dio denaro. Nessuno sport può reggere 11 mesi ai massimi livelli, tra Nazionale, coppe e campionato. Se vuoi vincere, devi salvaguardare [e1] la salute dell’atleta e lo spettacolo. Nella Nba ci sono tre mesi di vacanza”.

La moviola in campo?
“Sul fuorigioco discusso fermare la partita può creare complicazioni, perché sulla stessa azione si possono avere 3 o 4 opinioni discordanti. Ma per il gol fantasma è assurdo dire no a priori alla tecnologia, se dà reali vantaggi. In una partita di tennis tutti ormai siamo contenti che ci sia una macchina che dice se la pallina è fuori o dentro. Nessuno tornerebbe agli anni Settanta, quando il tennista cancellava il segno”.

L’evoluzione del calcio è stata anche tecnica?
“No. Io vedo un sacco di squadre che attaccano, ma una notevole carenza difensiva. Oggi la cosa più difficile è difendersi. Ormai i terzini non sono più difensori, i centrali a volte sono ex centrocampisti e si lavora poco sotto l’aspetto difensivo. C’è una sola squadra sulla quale non so dare un giudizio da questo punto di vista, perché è atipica in tutto, anche nel difendersi. Ma i numeri dicono che anche in questo il Barcellona è unico”.

La rivoluzione del Barça farà la storia, come quelle dell’Ajax di Michels e del Milan di Sacchi?
“Sicuramente. E’ un piacere vedere giocare il Barcellona. E’ una squadra di calciatori educati, con grandissime doti tecniche. E poi è l’elogio della democrazia del calcio. A parte un paio, il Barça è composto di giocatori di 1,65 o giù di lì, che però non fanno vedere il pallone agli avversari”.

Messi vale Maradona?
“E’ della stessa categoria. Gioca sempre, con un rendimento sempre altissimo, è giovane e farà ancora in tempo a vincere con l’Argentina, come Maradona. Per me è sicuramente più forte di Cristiano Ronaldo, tanto più che io sono abituato a vedere anche l’uomo, non solo il calciatore: Messi, per come si comporta in campo, è un esempio per i ragazzi”.

Il livello della serie A, nel frattempo, è sceso.
“Il record del Milan, quello delle 56 partite senza sconfitte, vale di più, perché arrivò nel periodo delle cosiddette sette sorelle: il Parma vinceva la Coppa Uefa, la Lazio la Coppa delle coppe e in Europa tutte le italiane arrivavano fino in fondo. Ora la Juve vince a mani basse ed è l’unica che può fare qualcosa anche in Champions”.

C’entra la crisi?
“Sì, ma l’Inter tutto sommato ha fatto bene lo stesso, mentre mi ha deluso un po’ il Napoli: credo che potesse puntare a qualcosa in più. La crisi è importante, però la politica ha una grossa influenza sullo stato del calcio italiano. Me ne accorsi quando partecipai alla presentazione della candidatura a Euro 2016. Quella era una scelta esclusivamente politica. Ma l’Italia non ha voglia di pensare al rinnovamento, anche se la legge sugli stadi non peserebbe sulle casse dello Stato e, anzi, potrebbe dare qualcosa al calcio italiano”.

Il suo ex collega Platini, da presidente dell’Uefa, fa abbastanza per il calcio? 
“All’inizio non ero d’accordo con lui su tante cose. Poi in tante altre mi è piaciuto. Ha dimostrato che un ex calciatore con la testa, in un mondo molto politico come quello dell’Uefa, può dare idee innovative. Il fair-play finanziario è importante. Si gareggia ad armi impari: ci sono squadre con 500 milioni di debiti e altre no, ci sono le spagnole che godono di una tassazione inferiore”.

IL TALENTO DI EL SHAARAWY
Intanto i club italiani puntano finalmente sui giovani. 
“Secondo me è una scelta del tutto casuale e non programmata, almeno non da tutti. Ma può essere un gran bene: avete visto De Sciglio nel Milan? Probabilmente, qualche anno fa, non avrebbe trovato posto”.

E’ il suo erede, dicono.
“I paragoni si faranno sempre, ma non fanno mai bene a chi sta arrivando. Deve continuare così. E’ assolutamente lineare: fa tutto bene in maniera semplice. Anche quando è entrato nel derby, e non era affatto facile, ha impressionato per la semplicità nel gioco. Mi sembra un ragazzo equilibrato: trovarsi a quell’età titolare nel Milan si può pagare, perché si sente troppo la pressione, se non si è equilibrati. Un altro terzino di talento era Santon, all’Inter: credo che giocare all’estero gli faccia bene”.

La grande scuola difensiva italiana si sta esaurendo?
“Non è solo un problema dell’Italia. Nelle giovanili c’è poca specializzazione nel ruolo. Nel mondo, ormai, solo Thiago Silva è l’unico che può cambiare una partita. Probabilmente imparare a correre dietro l’avversario è molto più duro che attaccare e meno gratificante”.

Non sapere più marcare a uomo non è un limite?
“Io credo piuttosto che, per arrivare al tipo di gioco a zona quasi perfetto del Milan di Sacchi, fossero serviti allenamenti massacranti e ripetitivi, per studiare tutte le varianti: era una fatica inenarrabile. Adesso lo è ancora di più, visto che le regole sono cambiate e le varianti da studiare sono aumentate”.

La Nazionale la diverte oppure il gioco di Prandelli, basato sul possesso palla, le sembra un azzardo?
“A me la Nazionale dell’Europeo è piaciuta tantissimo. Chi dice che il calcio italiano è vecchio è servito. Ha dato la dimostrazione di sapersi adattare, in ogni difficoltà, e di avere ancora qualcosa in più, anche a livello di conoscenze, vedi Italia-Germania”.

L’Italia ha perso finalmente la fama di patria del catenaccio.
“Questo è un altro luogo comune assurdo. Perché, Lippi era un catenacciaro? E Sacchi? E mio padre stesso, che schierava tre attaccanti?”.

Chi è il migliore calciatore italiano, oggi?
“Pirlo è un giocatore unico, Buffon un portiere eccezionale, Barzagli il migliore difensore, De Rossi un grande centrocampista anche se gioca poco. In questo momento mi piace  tanto El Shaarawy. Quest’estate, guardando Milan-Chelsea, ho discusso di lui con alcuni amici, perplessi sul suo precampionato. Io vedevo che faceva le due fasi senza problemi, si capivano le sue potenzialità. Ma mi ha sorpreso comunque, per la resistenza e per la capacità di segnare. Spero che rimanga umile: la testa non è un dettaglio, nello sport”.

La domanda sorge spontanea: e Balotelli?
“Deve trovare la tranquillità personale. Se no, sarà sempre un’eterna promessa. Gli anni passano, è ora di prendere in mano la propria vita, con responsabilità”.

Pato ritroverà se stesso, in Brasile?
“Dissi un anno fa: quando lo vedrò trascinare una squadra non solo con le giocate, ma col carattere, potrò dire che può diventare uno dei primi tre al mondo. Oggi devo sospendere ancora il giudizio”.

UN UOMO LIBERO 
Che cosa pensa della politica del Milan e dell’eventualità che Berlusconi, prima o poi, venda il club?
“Penso che l’idea di ringiovanire la squadra sia condivisibile e che la gente sia disposta ad aspettare qualche anno, se vede una progettualità. Però il progetto ci deve essere, non può durare tre mesi. E per vincere, i giovani non bastano, me lo dice l’esperienza. Io credo che si possa fare bene anche con una disponibilità economica limitata. Tanti calciatori verrebbero ancora di corsa al Milan, per quello che è stato nei 25 anni magici di cui parlavo. Questo fascino è una forza, non va sprecato”.

Ma questa stagione, ormai, è quasi segnata?
“Il Milan, quest’anno, ha giocato anche bene, come contro la Juve. Ma col Barça, in Champions, poche squadre possono pensare di uscire indenni. E per entrare fra le prime tre in campionato serve quasi un miracolo, un girone di ritorno prodigioso. Vedo più possibile la qualificazione all’Europa League, anche se davanti ci sono tante squadre”.

E’ vero che lei, durante la sua interminabile avventura rossonera, rischiò di andare al Chelsea e alla Juve?
“Ho incontrato di recente Boniperti e mi ha confermato che la Juve mi voleva. Al Chelsea mi chiamò Vialli nel ’96. Però preferii restare al Milan, per venire fuori da un’annata disastrosa. E’ stata una scelta giusta. Poi, per l’Arsenal mi chiamò una persona, facendomi un’offerta economica, e ci fu anche una richiesta di Ferguson per il Manchester United e forse un’altra del Real Madrid. La verità è che molto spesso queste richieste coincidevano con annate storte: sarebbe stato probabilmente più semplice accettare. Ma noi del nucleo storico ci prendevamo le nostre responsabilità, preferivamo rimanere e riscattarci sul campo, mettendoci la faccia”.

Secondo la stampa francese, il Psg di Ancelotti la voleva, per allenare i difensori.
“Ma se ho appena dato che allenare non m’interessa! Sono stato ospite di Leonardo a Parigi. Ma solo ospite, nessuna proposta”.

Da ex capitano: non è che il Milan perda l’identità, cambiando in media un capitano ogni tre partite?
“Colpa degli infortuni e del cambiamento traumatico della squadra l’estate scorsa. Tutto questo dà il senso appunto del grosso cambiamento in atto. Ricordo quando ereditai la fascia da Franco Baresi. Capello chiese chi fosse il nuovo capitano. Anche altri, come Billy Costacurta, ne avevano diritto. Decidemmo nello spogliatoio e io non ebbi problemi a prendermi la responsabilità”.

La sua maglia numero 3 è stata ritirata: potrebbero indossarla, in teoria, soltanto i suoi figli Christian, 16 anni, e Daniel, 11, che giocano da terzino e da centravanti-ala nelle giovanili del Milan.
“Non è uno dei miei primi pensieri e spero che non sia il loro. Ci stanno mettendo un sacco di passione e quello deve essere il loro pensiero. Mi posso immaginare il tipo di pressione, che è quello che avevo io, figlio di Cesare capitano del Milan, però addirittura moltiplicato. A me interessa che crescano bene, nello sport, nella scuola, nei rapporti con gli altri”.

Studiare e fare sport ad alto livello, in Italia, non è semplice.
“Di sicuro molti ragazzi vengono sradicati e in generale non sempre la scuola ti aiuta. Ricordo che io, che pure ho avuto la fortuna di crescere e studiare a Milano, nella mia città, avevo una professoressa che mi chiamava, apposta, ‘il calcista’. Potrebbe servire un’impostazione all’americana, con le scuole e le università in cui chi ha talento nello sport viene trattato come un genio matematico”.

Almeno i settori giovanili tutelano il talento? 
“Anche lì è cambiato tutto. Ad ogni partita ci sono i convocati i non convocati, è aumentata la competizione. In questo era più bello ai miei tempi, perché la crescita di un ragazzo passa attraverso periodi più o meno floridi dal punto di vista fisico. Molto spesso, per la competizione enorme di cui parlavo, non si aspetta un ragazzo. Ed è un peccato, perché a quell’età esistono differenze fisiche e ormonali”.

Che cosa conta di più, oltre alla tecnica?
“I valori. Uno forma il proprio carattere, ma l’impostazione che ti danno i genitori è fondamentale e più di tutto lo è il senso della lealtà. A volte ti fa prendere una strada più lunga, però alla fine te lo riconoscono tutti. E’ la cosa più bella che mi sia successa, da quando ho smesso: questo riconoscimento generale”.

Lei ha giocato più minuti di qualunque giocatore ai Mondiali e ha smesso da protagonista a oltre 40 anni: la longevità agonistica ad alto livello è il record che più la inorgoglisce?
“Non ho saltato un minuto, tra Mondiali ed Europei, e soprattutto nel Milan ho giocato più di chiunque altro. Ma a inorgoglirmi è l’indipendenza intellettuale, che mi gusto appieno ormai da una quindicina d’anni. Io non sono assolutamente una persona perfetta, ho fatto le mie esperienze, positive e negative. Ho osservato molto e ho cercato i sbagliare il meno possibile. La mia indipendenza, adesso, non la baratterei proprio con nulla.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.repubblica.it/sport/calcio/2012/12/29/news/paolo_maldini-49604993/

Maldini: ‘Niente politica con Berlusconi’ | Calciomercato.com

Intervista a 360 gradi all’ex capitano rossonero. “Io escluso, ma indipendente”. Il rapporto con Berlusconi, il disinteresse per la politica, le valutazioni sulla fase attuale del calcio italiano e sul momento della squadra della sua vita.
Maldini, l’esilio di una bandiera: “Che amarezza il Milan senza magia”.

La casa di Paolo Maldini non è lontana dallo stadio della sua vita: quando c’è la partita, il frastuono delle auto e delle moto dirette a San Siro si può sentire un po’ ovattato, se si porge l’orecchio alla processione pagana, che sfiora inconsapevole la tana dell’eroe di un tempo ancora molto vicino. Oggi non è giorno di partita e nemmeno di scuola e di lavoro. Nel salone bianco, dove non c’è traccia ostentata del fresco passato di uno dei più grandi campioni del calcio italiano, l’imprenditore Maldini ne parla con amore intatto e senza malinconia, mentre i figli Christian e Daniel s’affacciano a salutare. E’ quello che appare: un uomo di 44 anni, realizzato e soddisfatto di se stesso e della propria famiglia, un ex calciatore famoso che non ha bisogno del calcio per vivere. E’ assai più probabile che il calcio italiano, in crisi tecnica e etica, abbia bisogno di lui. Invece, tre anni e mezzo dopo Fiorentina-Milan del 31 maggio 2009, il suo passo d’addio, continua lo spreco di un fuoriclasse che gli altri ci invidiano anche per l’intelligenza e l’immagine.

NIENTE POLITICA

Maldini, è vero che lei si candiderà per le elezioni politiche nel partito di Berlusconi?
“Io parlo poco, da quando ho smesso di giocare, e in quelle poche occasioni spero di essere chiaro. Eppure ogni tanto escono notizie false. Non è assolutamente vero. Non ho mai ricevuto proposte. Berlusconi, dal 2009 a oggi, cioè dalla mia ultima partita a San Siro, l’ho visto soltanto alla festa dei suoi 25 anni di presidenza. Poi non l’ho mai più sentito. Inoltre, anzi soprattutto, entrare in politica non è una mia aspirazione”.

Il calcio ai calciatori e la politica ai politici. 
“Ma no, i calciatori sono uomini come gli altri, e magari possono essere particolarmente sensibili a certe problematiche. Solo che a me la politica non interessa”.

Alcuni suoi ex compagni, come Kaladze in Georgia, Shevchenko in Ucraina e Weah in Liberia, sono diventati politici.
“Ma loro rappresentano dei simboli, nei rispettivi paesi, paesi con situazioni particolari. L’Italia è, o dovrebbe essere, un paese con una democrazia un pochino più solida”.

Lei, invece, è certamente un simbolo del Milan. E’ soltanto perché Berlusconi non l’ha più chiamata che lei non è ancora entrato nel club?
“No. E’ perché il Milan, giustamente, fa le sue politiche: le decidono il presidente e la dirigenza ed è normale che sia così”.

Però sono già passati 3 anni e mezzo dal suo ritiro: in questo modo non rischia ormai un futuro lontano dal calcio?
“Sì, ma la cosa non mi spaventa. Ho fatto così tanto, nel calcio, che nulla mi toglierà mai quello che c’è stato per 31 anni, da quando cominciai nel settore giovanile del Milan. Il “rischio” di restare fuori dal mondo del calcio, oggettivamente, esiste. Io ho avuto un passato e un legame così forte col Milan che è difficile immaginarmi dentro un’altra realtà, anche europea: le possibilità si assottigliano”.

Elenchiamole.
“Con una premessa indispensabile, però. Io non mi sto offrendo al Milan. Io faccio l’imprenditore nel settore immobiliare, ho iniziato quando ancora giocavo e ho ormai un’attività avviata, fuori dal calcio. Se però parliamo di calcio e di quale ruolo potrei avere nel calcio, io rispondo alle domande”.

Allenatore?
“Mai preso in considerazione, perché ho visto mio padre e la vita da nomade che faceva. Non fa per me. E poi, se uno fa l’allenatore, deve aprire a tutte le possibilità, come ha fatto legittimamente Leonardo: non può pensare di allenare solo il Milan. Perciò, visto che io non penso di potere lavorare in un altro club italiano, le possibilità che io alleni sono pari allo zero. E in un altro paese poco di più”.

Rimane l’incarico dirigenziale.
“Non mi piace la politica, quindi dovrebbe essere qualcosa di legato al calcio in senso stretto”.

Cioè?
“Io posso portare la mia conoscenza calcistica: la valutazione dei calciatori e un’esperienza che ho acquisito nella mia lunga carriera. Io credo di avere vissuto tutta l’evoluzione del calcio moderno, quindi sì, potrei fare il dirigente. Nel calcio non è che abbondi la gente competente al 100%. C’è chi si è inventato il lavoro, ma non sempre trovi chi sa di tattica, di calciatori, di psicologia calcistica. Gli anni da capitano del Milan, dal ’97 in poi, mi sono serviti tanto. L’ho fatto anche in Nazionale, dal ’94 al 2002, ma è stato diverso: in Nazionale gestisci l’evento, nel club la quotidianità. E impari tantissimo”.

La Figc, la Fifa o l’Uefa?
“Non ci ho mai pensato sul serio. Un ruolo tanto per averlo o un incarico di rappresentanza non mi interessano”.

UNA RISORSA SPRECATA
Intanto lei è una risorsa inutilizzata: non si sente uno spreco?
“Bisogna vedere se io vengo visto come una risorsa o come un problema. Vuole che le dica che cosa mi dà veramente fastidio?”.

Prego.
“Parliamo del Milan, perché io ho avuto la fortuna di partecipare a 25 anni splendidi. Beh, quando sono arrivato, io ho trovato già una grande base per costruire una grande squadra: grandi calciatori e grandi persone. Berlusconi è arrivato e ci ha insegnato a pensare in grande. Certo, con gli investimenti, perché comprava i migliori. Ma lui ci ha messo la mentalità nuova, soprattutto: Sacchi e l’idea che il club dovesse diventare un modello per il tipo di gioco, per le vittorie. Insomma, si è creato veramente qualcosa di magico, grazie alla personalità di chi già c’era e di chi è arrivato”.

Poi?
“Poi, a poco a poco, questo si è perso e il Milan si è trasformato, da squadra magica, in una squadra assolutamente normale. E sa perché? Perché – a differenza di tanti grandi club europei con un passato simile, tipo Real, Barcellona e Bayern, dove chi ha scritto la storia della squadra è andato a lavorare lì per trasmettere ai giovani quello che aveva imparato – nel Milan la società stessa ha smesso di trasmettere quel messaggio, al di là degli investimenti. All’interno del Milan attuale non c’è nessuno, tra quelli che ne hanno fatto la storia, ad avere un ruolo non marginale”.

Il paragone è col Bayern?
“Esatto, ma non solo. Guardi la storia del Bayern e del Real e i ruoli che hanno avuto nel tempo Beckenbauer, Hoeness, Rummenigge, Butragueño, Gallego, Valdano. Anche ai nuovi che arrivano, questa guida e questa magia sono più facili da trasmettere attraverso chi l’ha provata e anche creata. Il Milan è sempre stato una grande squadra, anche ai tempi di mio padre. Ma la grande magia c’è stata per 25 anni. Poi s’è persa”.

E’ un processo irreversibile?
“Valutare la programmazione di questo Milan è difficile. In estate sono andati via 12 giocatori di grande personalità e non mettere in conto un inizio di stagione complicato mi sembra non programmare il futuro e aspettare il mercato invernale. Dove di affari veri, in genere, se ne fanno pochi”.

Galliani, però, ha spiegato spesso che era tutto previsto e che questo è l’anno 1.
“Io vedo sinceramente poca programmazione. Magari mi sbaglierò, ma certe scelte di giocatori, anche se a parametro zero, sono lontane dall’idea di un programma studiato”.

Berlusconi ha appena parlato di una nuova politica, basata solo sugli Under 22.
“Quelli davvero bravi costano dai 20 milioni in su e non ce ne sono tanti. Abbassare il monte ingaggi e ringiovanire la rosa è fondamentale, d’accordo. Ma la valutazione dei giocatori non so da chi venga, visto che Braida fa sempre meno quel lavoro”.

Ci si affida sempre a un procuratore di riferimento, come Raiola. 
“E’ la logica degli ultimi anni. Le racconto una cosa. Gli ultimi due allenatori hanno cercato di portarmi dentro. Leonardo mi voleva a Milanello: “Anche senza fare niente – mi diceva – solo con la tua presenza”. Ma io gli risposi che non aveva senso presentarmi a Milanello senza un ruolo”.

Lei avrebbe fatto il direttore sportivo?
“Galliani, in presenza di Leo, mi disse che il ds è una figura non esiste più e che il Milan era a posto in quel ruolo. A me sembra invece che ci sia carenza”.

LA CHIAMATA DI ALLEGRI
E Allegri?
“Allegri, l’anno scorso, mi disse che aveva bisogno di qualcuno che controllasse anche lui: “Paolo, chi mi dice se ho sbagliato qualcosa anche tatticamente e nella gestione dello spogliatoio, che ricade solo su di me?”. Gli serviva uno che avesse la personalità per parlare con i giocatori importanti – con Ibra, con Boateng, con altri – in modo autorevole. E lui pensava che io, col mio passato, potessi farlo”.

Può raccontare i dettagli di quella proposta?
“Max mi chiamò quando ero in vacanza negli States, dicendomi appunto che mi voleva parlare, perché aveva bisogno di me per gestire il gruppo. Ci siamo visti, ci siamo sentiti al telefono e io lo avvisai che questo avrebbe potuto rappresentare un problema per lui. Allegri mi disse che aveva parlato con la società e che sembrava tutto ok. Poco dopo, via sms, mi scrisse che mi avrebbe chiamato entro pochi giorni. Era l’ottobre del 2011, non l’ho più sentito. Io non ho mai cercato nessuno, lo ripeto. E’ stato sempre il contrario”.

Qual è oggi il suo sentimento verso il Milan?
“Mi capita di ripensare al passato. Eravamo coscienti del nostro ruolo. I giocatori facevano i giocatori, i dirigenti i dirigenti. Ognuno si prendeva le proprie responsabilità, senza ingerenze. C’era talmente tanta conoscenza della materia calcio a livello globale… Solo uno stupido non assorbe nozioni dal lavoro che fa e noi eravamo proprio una squadra”.

La sensazione comune è che Galliani non la voglia.
“Può darsi. E’ il dirigente che ha vinto di più ed è anche legittimo che faccia le sue scelte e si scelga i collaboratori in cui crede. Ma vorrei sfatare la diceria che io sarei uno della famiglia. Non è vero: non mi vogliono così spasmodicamente”.

Quindi il sentimento è di delusione?
“Direi di amarezza, e non solo mia. Amarezza perché tutto quello che si è creato insieme si è dissolto. E’ la stessa sensazione di molti miei ex compagni. Non è scontato che si crei la magia che noi abbiamo vissuto. Ecco, io, vorrei restituire, tutto qui. Ho dato più di qualsiasi altro nella storia del Milan, ho giocato più partite di tutti. Ma sento che quello che ho ricevuto è ancora di più. Sento un debito di riconoscenza”.

Ne ha mai parlato con Berlusconi?
“Lo dissi al presidente prima di smettere. L’aspetto economico non è una leva che può fare effetto su di me. Il lavoro di ognuno di noi va pagato nella giusta maniera, ma non è quello a decidere. E neanche può contare lo stare sotto i riflettori: io ho avuto anche troppa sovraesposizione mediatica, per il mio carattere schivo. Piuttosto, la soddisfazione di fare qualcosa di travolgente, di passionale, non ha prezzo: soprattutto verso un club che mi ha dato tutto ciò che ho appena detto”.

Eppure quella dell’eterno ex campione sembrerebbe una bella condizione.
“Io ho avuto la fortuna dell’indipendenza di lavoro e di pensiero e me la tengo, quindi dico ciò che penso. E penso che molti calciatori abbiano tante cose da dire e da fare. Il calciatore, secondo me, dovrebbe avere più coscienza del proprio ruolo. E’ difficile cambiare le cose, finché uno non le vuole cambiare veramente. Serve un po’ più di coraggio, nella vita. Prendiamo, ad esempio, la questione delle frange violente del tifo”.

Allude al suo dissidio con gli ultrà?
“Io fui contestato, nella mia ultima partita a San Siro, perché sono sempre stato indipendente e non mi sono mai piegato a quel tipo di logica. Le società, nei rapporti con i violenti, devono essere più coraggiose. Stadi vecchi e petardi: non è questa la mia idea del calcio del futuro”.

Se la Figc le proponesse un incarico su questo tema?
“Indipendentemente da me, questo potrebbe essere un ruolo quasi federale. Ma c’è voglia di cambiare? La legge sugli stadi è ancora nel cassetto, dopo tre anni”.

IL CALCIO AI CALCIATORI 
Anche da spettatore, lo si avverte parlandole, lei segue il calcio con lo stesso amore di quando giocava.
“Io per questo sport provo eterna gratitudine, il mio è un amore passionale. A me piace andare allo stadio. Quest’anno ho visto Juve-Chelsea anche per vedere lo stadio nuovo della Juve. E ho trovato una squadra che gioca un calcio moderno in uno stadio moderno. L’Italia si butta addosso anche colpe che non ha. La Juve è di livello europeo, è una tra le prime 5-6 come tipo di gioco. Per il resto, in Italia, provo una tristezza enorme per gli stadi vuoti: il paragone con la Germania è avvilente. Negli ultimi anni San Siro è spesso una desolazione. Almeno, però, hanno rifatto il campo”.

Era il suo incubo personale: lo verniciavano per farlo sembrare bello e lei s’infuriava.
“Già. Era pericoloso per noi e nocivo per lo spettacolo. Il mio rimpianto è che abbiano risolto il problema quando io ho smesso. Ma quanto tempo è dovuto passare! E c’è voluta una figuraccia a livello europeo, perché il Barcellona si è lamentato del terreno. Io vedo dal vivo anche altri sport e mi sono convinto che gli stadi siano una priorità”.

Allude agli stadi americani?
“Alludo alla Germania, dove il Mondiale 2006 ha cambiato tutto, e agli sport americani, al basket e al baseball, che pure non sono i miei sporti. Vado a New York a vedere i Knicks o gli Yankees ed è uno spettacolo, nel rispetto dello spettatore. Noi siamo il paese del turismo, ma ce lo siamo dimenticati. Dopo Italia ’90 siamo tornati indietro: non abbiamo sfruttato l’occasione. Siamo vecchi”.

Anche tra i dirigenti?
“Alla cerimonia della Hall of Fame ho incontrato Albertini, che fa il vicepresidente federale. Con Tommasi, presidente dell’Aic, è l’unica faccia nuova del calcio negli ultimi 25 anni. Ho grande rispetto per chi è lì da 30 anni ed è una persona perbene. Ma un trentacinquenne vede le cose diversamente da un settantenne. Il calcio, come tutte le cose al mondo, cambia”.

Il suo slogan è: più calciatori nel governo del calcio?
“A me sembra che si debba aprire la mente, guardando anche gli altri sport che generano grandi introiti. Non ci si può consegnare al dio denaro. Nessuno sport può reggere 11 mesi ai massimi livelli, tra Nazionale, coppe e campionato. Se vuoi vincere, devi salvaguardare [e1] la salute dell’atleta e lo spettacolo. Nella Nba ci sono tre mesi di vacanza”.

La moviola in campo?
“Sul fuorigioco discusso fermare la partita può creare complicazioni, perché sulla stessa azione si possono avere 3 o 4 opinioni discordanti. Ma per il gol fantasma è assurdo dire no a priori alla tecnologia, se dà reali vantaggi. In una partita di tennis tutti ormai siamo contenti che ci sia una macchina che dice se la pallina è fuori o dentro. Nessuno tornerebbe agli anni Settanta, quando il tennista cancellava il segno”.

L’evoluzione del calcio è stata anche tecnica?
“No. Io vedo un sacco di squadre che attaccano, ma una notevole carenza difensiva. Oggi la cosa più difficile è difendersi. Ormai i terzini non sono più difensori, i centrali a volte sono ex centrocampisti e si lavora poco sotto l’aspetto difensivo. C’è una sola squadra sulla quale non so dare un giudizio da questo punto di vista, perché è atipica in tutto, anche nel difendersi. Ma i numeri dicono che anche in questo il Barcellona è unico”.

La rivoluzione del Barça farà la storia, come quelle dell’Ajax di Michels e del Milan di Sacchi?
“Sicuramente. E’ un piacere vedere giocare il Barcellona. E’ una squadra di calciatori educati, con grandissime doti tecniche. E poi è l’elogio della democrazia del calcio. A parte un paio, il Barça è composto di giocatori di 1,65 o giù di lì, che però non fanno vedere il pallone agli avversari”.

Messi vale Maradona?
“E’ della stessa categoria. Gioca sempre, con un rendimento sempre altissimo, è giovane e farà ancora in tempo a vincere con l’Argentina, come Maradona. Per me è sicuramente più forte di Cristiano Ronaldo, tanto più che io sono abituato a vedere anche l’uomo, non solo il calciatore: Messi, per come si comporta in campo, è un esempio per i ragazzi”.

Il livello della serie A, nel frattempo, è sceso.
“Il record del Milan, quello delle 56 partite senza sconfitte, vale di più, perché arrivò nel periodo delle cosiddette sette sorelle: il Parma vinceva la Coppa Uefa, la Lazio la Coppa delle coppe e in Europa tutte le italiane arrivavano fino in fondo. Ora la Juve vince a mani basse ed è l’unica che può fare qualcosa anche in Champions”.

C’entra la crisi?
“Sì, ma l’Inter tutto sommato ha fatto bene lo stesso, mentre mi ha deluso un po’ il Napoli: credo che potesse puntare a qualcosa in più. La crisi è importante, però la politica ha una grossa influenza sullo stato del calcio italiano. Me ne accorsi quando partecipai alla presentazione della candidatura a Euro 2016. Quella era una scelta esclusivamente politica. Ma l’Italia non ha voglia di pensare al rinnovamento, anche se la legge sugli stadi non peserebbe sulle casse dello Stato e, anzi, potrebbe dare qualcosa al calcio italiano”.

Il suo ex collega Platini, da presidente dell’Uefa, fa abbastanza per il calcio? 
“All’inizio non ero d’accordo con lui su tante cose. Poi in tante altre mi è piaciuto. Ha dimostrato che un ex calciatore con la testa, in un mondo molto politico come quello dell’Uefa, può dare idee innovative. Il fair-play finanziario è importante. Si gareggia ad armi impari: ci sono squadre con 500 milioni di debiti e altre no, ci sono le spagnole che godono di una tassazione inferiore”.

IL TALENTO DI EL SHAARAWY
Intanto i club italiani puntano finalmente sui giovani. 
“Secondo me è una scelta del tutto casuale e non programmata, almeno non da tutti. Ma può essere un gran bene: avete visto De Sciglio nel Milan? Probabilmente, qualche anno fa, non avrebbe trovato posto”.

E’ il suo erede, dicono.
“I paragoni si faranno sempre, ma non fanno mai bene a chi sta arrivando. Deve continuare così. E’ assolutamente lineare: fa tutto bene in maniera semplice. Anche quando è entrato nel derby, e non era affatto facile, ha impressionato per la semplicità nel gioco. Mi sembra un ragazzo equilibrato: trovarsi a quell’età titolare nel Milan si può pagare, perché si sente troppo la pressione, se non si è equilibrati. Un altro terzino di talento era Santon, all’Inter: credo che giocare all’estero gli faccia bene”.

La grande scuola difensiva italiana si sta esaurendo?
“Non è solo un problema dell’Italia. Nelle giovanili c’è poca specializzazione nel ruolo. Nel mondo, ormai, solo Thiago Silva è l’unico che può cambiare una partita. Probabilmente imparare a correre dietro l’avversario è molto più duro che attaccare e meno gratificante”.

Non sapere più marcare a uomo non è un limite?
“Io credo piuttosto che, per arrivare al tipo di gioco a zona quasi perfetto del Milan di Sacchi, fossero serviti allenamenti massacranti e ripetitivi, per studiare tutte le varianti: era una fatica inenarrabile. Adesso lo è ancora di più, visto che le regole sono cambiate e le varianti da studiare sono aumentate”.

La Nazionale la diverte oppure il gioco di Prandelli, basato sul possesso palla, le sembra un azzardo?
“A me la Nazionale dell’Europeo è piaciuta tantissimo. Chi dice che il calcio italiano è vecchio è servito. Ha dato la dimostrazione di sapersi adattare, in ogni difficoltà, e di avere ancora qualcosa in più, anche a livello di conoscenze, vedi Italia-Germania”.

L’Italia ha perso finalmente la fama di patria del catenaccio.
“Questo è un altro luogo comune assurdo. Perché, Lippi era un catenacciaro? E Sacchi? E mio padre stesso, che schierava tre attaccanti?”.

Chi è il migliore calciatore italiano, oggi?
“Pirlo è un giocatore unico, Buffon un portiere eccezionale, Barzagli il migliore difensore, De Rossi un grande centrocampista anche se gioca poco. In questo momento mi piace tanto El Shaarawy. Quest’estate, guardando Milan-Chelsea, ho discusso di lui con alcuni amici, perplessi sul suo precampionato. Io vedevo che faceva le due fasi senza problemi, si capivano le sue potenzialità. Ma mi ha sorpreso comunque, per la resistenza e per la capacità di segnare. Spero che rimanga umile: la testa non è un dettaglio, nello sport”.

La domanda sorge spontanea: e Balotelli?
“Deve trovare la tranquillità personale. Se no, sarà sempre un’eterna promessa. Gli anni passano, è ora di prendere in mano la propria vita, con responsabilità”.

Pato ritroverà se stesso, in Brasile?
“Dissi un anno fa: quando lo vedrò trascinare una squadra non solo con le giocate, ma col carattere, potrò dire che può diventare uno dei primi tre al mondo. Oggi devo sospendere ancora il giudizio”.

UN UOMO LIBERO 
Che cosa pensa della politica del Milan e dell’eventualità che Berlusconi, prima o poi, venda il club?
“Penso che l’idea di ringiovanire la squadra sia condivisibile e che la gente sia disposta ad aspettare qualche anno, se vede una progettualità. Però il progetto ci deve essere, non può durare tre mesi. E per vincere, i giovani non bastano, me lo dice l’esperienza. Io credo che si possa fare bene anche con una disponibilità economica limitata. Tanti calciatori verrebbero ancora di corsa al Milan, per quello che è stato nei 25 anni magici di cui parlavo. Questo fascino è una forza, non va sprecato”.

Ma questa stagione, ormai, è quasi segnata?
“Il Milan, quest’anno, ha giocato anche bene, come contro la Juve. Ma col Barça, in Champions, poche squadre possono pensare di uscire indenni. E per entrare fra le prime tre in campionato serve quasi un miracolo, un girone di ritorno prodigioso. Vedo più possibile la qualificazione all’Europa League, anche se davanti ci sono tante squadre”.

E’ vero che lei, durante la sua interminabile avventura rossonera, rischiò di andare al Chelsea e alla Juve?
“Ho incontrato di recente Boniperti e mi ha confermato che la Juve mi voleva. Al Chelsea mi chiamò Vialli nel ’96. Però preferii restare al Milan, per venire fuori da un’annata disastrosa. E’ stata una scelta giusta. Poi, per l’Arsenal mi chiamò una persona, facendomi un’offerta economica, e ci fu anche una richiesta di Ferguson per il Manchester United e forse un’altra del Real Madrid. La verità è che molto spesso queste richieste coincidevano con annate storte: sarebbe stato probabilmente più semplice accettare. Ma noi del nucleo storico ci prendevamo le nostre responsabilità, preferivamo rimanere e riscattarci sul campo, mettendoci la faccia”.

Secondo la stampa francese, il Psg di Ancelotti la voleva, per allenare i difensori.
“Ma se ho appena dato che allenare non m’interessa! Sono stato ospite di Leonardo a Parigi. Ma solo ospite, nessuna proposta”.

Da ex capitano: non è che il Milan perda l’identità, cambiando in media un capitano ogni tre partite?
“Colpa degli infortuni e del cambiamento traumatico della squadra l’estate scorsa. Tutto questo dà il senso appunto del grosso cambiamento in atto. Ricordo quando ereditai la fascia da Franco Baresi. Capello chiese chi fosse il nuovo capitano. Anche altri, come Billy Costacurta, ne avevano diritto. Decidemmo nello spogliatoio e io non ebbi problemi a prendermi la responsabilità”.

La sua maglia numero 3 è stata ritirata: potrebbero indossarla, in teoria, soltanto i suoi figli Christian, 16 anni, e Daniel, 11, che giocano da terzino e da centravanti-ala nelle giovanili del Milan.
“Non è uno dei miei primi pensieri e spero che non sia il loro. Ci stanno mettendo un sacco di passione e quello deve essere il loro pensiero. Mi posso immaginare il tipo di pressione, che è quello che avevo io, figlio di Cesare capitano del Milan, però addirittura moltiplicato. A me interessa che crescano bene, nello sport, nella scuola, nei rapporti con gli altri”.

Studiare e fare sport ad alto livello, in Italia, non è semplice.
“Di sicuro molti ragazzi vengono sradicati e in generale non sempre la scuola ti aiuta. Ricordo che io, che pure ho avuto la fortuna di crescere e studiare a Milano, nella mia città, avevo una professoressa che mi chiamava, apposta, ‘il calcista’. Potrebbe servire un’impostazione all’americana, con le scuole e le università in cui chi ha talento nello sport viene trattato come un genio matematico”.

Almeno i settori giovanili tutelano il talento? 
“Anche lì è cambiato tutto. Ad ogni partita ci sono i convocati i non convocati, è aumentata la competizione. In questo era più bello ai miei tempi, perché la crescita di un ragazzo passa attraverso periodi più o meno floridi dal punto di vista fisico. Molto spesso, per la competizione enorme di cui parlavo, non si aspetta un ragazzo. Ed è un peccato, perché a quell’età esistono differenze fisiche e ormonali”.

Che cosa conta di più, oltre alla tecnica?
“I valori. Uno forma il proprio carattere, ma l’impostazione che ti danno i genitori è fondamentale e più di tutto lo è il senso della lealtà. A volte ti fa prendere una strada più lunga, però alla fine te lo riconoscono tutti. E’ la cosa più bella che mi sia successa, da quando ho smesso: questo riconoscimento generale”.

Lei ha giocato più minuti di qualunque giocatore ai Mondiali e ha smesso da protagonista a oltre 40 anni: la longevità agonistica ad alto livello è il record che più la inorgoglisce?
“Non ho saltato un minuto, tra Mondiali ed Europei, e soprattutto nel Milan ho giocato più di chiunque altro. Ma a inorgoglirmi è l’indipendenza intellettuale, che mi gusto appieno ormai da una quindicina d’anni. Io non sono assolutamente una persona perfetta, ho fatto le mie esperienze, positive e negative. Ho osservato molto e ho cercato i sbagliare il meno possibile. La mia indipendenza, adesso, non la baratterei proprio con nulla.
(Enrico Currò – La Repubblica)

Maldini disoccupato: “Aspettouna chiamata dal Milan” – Repubblica.it

Fuori da un anno e mezzo, l’ex bandiera rossonera parla del presente e del futuro: “Non andrò mai all’Inter, Moratti non mi chiederebbe mai di diventare nerazzurro”. I rapporti con il club: “Berlusconi non mi ha chiamato, ora non vedo posto in società”
di ENRICO CURRO’

“Notizia fabbricata su un incontro fortuito con Moratti. A New York, per strada. C’è stima reciproca, ma Moratti non me lo chiederebbe mai”.




-保罗,听说你要去国际了?

-我和莫拉蒂在街头偶遇然后产生的新闻。我和他彼此尊重,但他绝对不会问我(要不要去国际)的。

Nemmeno Leonardo il transfuga? 
“L’ha fatto soltanto a livello di battuta, lui sa che la mia è una storia diversa dalla sua”.

Le avrà almeno chiesto consiglio.
“Ha deciso di fare l’allenatore e gli piace. Uno chiede consiglio, ma ha già in testa la sua idea”.

E qual è quella del simbolo del Milan e della Nazionale, da 18 mesi fuori dal calcio?
“Di lavorare nello sport in cui ho vissuto buona parte della mia vita, però solo per fare qualcosa che mi piaccia. Sarei comunque un dirigente giovane”.

Allenatore no?
“Troppe valigie, per ora non voglio allontanarmi da Milano. Mi godo le cose semplici: i figli – la più importante – la famiglia, gli amici, lo sport. Da calciatore la settimana non me la programmavo io. Ho un’azienda di abbigliamento e attività immobiliari. Nessun assillo economico, posso essere selettivo”.

Nessuna proposta allettante: possibile?
“Le elenco. Il settore giovanile del Milan, da Galliani, al ritorno da una trasferta, in aereo: mai vista come professione del futuro. Il Chelsea con Ancelotti: avevo smesso da appena 20 giorni e il caso Wilkins dimostra che lì c’è un po’ di confusione. La Figc: ho fatto il testimonial per l’Europeo, Albertini e il presidente Abete mi vorrebbero. Ma non mi sento adatto a un ruolo politico”.

Il telecronista?
“Mi ci vedo poco, a fare domande a chi ha appena finito una partita: ci sono passato”.

Leonardo la rivoleva in campo.
“A Milanello, in qualunque forma. Il problema era in quale forma”.

Insomma, farà il dirigente del Milan.
“Serve qualcosa di non estemporaneo. Conosco il Milan e il calcio, sarei una risorsa a livello tecnico. Ma oggi vedo difficile la mia collocazione nell’organigramma”.

Nessuna telefonata da Berlusconi?
“È impegnato in politica, non sempre è presente nelle strategie societarie”.

L’Uefa di Platini?
“Niente proposte: meno male, altrimenti passo per lo snob che rifiuta tutto. Semplicemente, non rinuncio all’indipendenza intellettuale”.

Non teme che passino troppi treni?
“No, io amo sul serio lo sport. Me l’hanno confermato le mie nuove sfide personali: boxe e tennis”.

Maldini pugile?
“Con tre amici, due sono i miei ex compagni Ba e Carbone. Fatica pura. Niente match, solo guantoni con l’istruttore: il naso me lo sono già spaccato abbastanza da calciatore. Il tennis, invece, fa capire l’importanza della mente. Il mio gioco è battuta e volée, farò presto qualche torneo”.

A proposito di testa, Cassano?
“Non giudico mai senza conoscere. Al Milan si impara il rispetto dei ruoli”.

L’anno scorso lei criticò la politica del club.
“Si critica per amore. Dopo tre anni di investimenti nulli, perché dire che si poteva vincere tutto? Leonardo era un azzardo in linea con la storia: pure Sacchi e Capello furono un azzardo”.

Quest’anno?
“Ibra, Robinho e Boateng hanno portato entusiasmo. E Allegri è molto bravo. È duttile, non si è fossilizzato su un’idea tattica”.

L’Inter sta rimontando.
“Ma Allegri recupererà gli infortunati. In Champions il gap mi sembra ancora consistente. O investi sui big o punti sul settore giovanile, sapendo però che ci vogliono 5-7 anni”.

Da spettatore si diverte?
“Mi fa impazzire il Barcellona dei piccoletti: fin dal settore giovanile privilegia la tecnica rispetto al fisico. In Spagna si gioca bene: vorrei tanti Giuseppe Rossi”.

Che cosa non le piace?
“Le dietrologie e le proteste in campo. Mi fanno stare male. A Christian e Daniel, che hanno 14 e 10 anni, le proibisco”.

Il calcio italiano è in crisi?
“Lo specchio è l’Europa League: stadi vuoti e squadre dominate. Serve un cambio di mentalità nei giovani”.

Il Mondiale?
“Squadra spenta e senza qualità. Ci sarà da soffrire. Auguro a Prandelli ogni fortuna, ma non vedo il cambio generazionale”. 

Messi Pallone d’Oro?
“Se si premia il più forte, è giusto che vinca per 5 anni. Se contavano il Mondiale o la continuità, toccava a Iniesta o Xavi”.

Il fair-play finanziario di Platini?
“Giusto: certi club inglesi, con debiti di 500 milioni, dominavano il mercato. Platini è democratico. Ogni tanto punzecchia noi italiani, ma Blatter è cento volte peggio”.

Rivera, Baggio e Sacchi in Figc?
“Li attende un lavoro lungo su sportività e gusto per il gioco. È il marchio del Milan, fin dai tempi di mio padre”.

Solo i suoi figli potranno indossare la maglia numero 3. 
“L’essenziale è che si comportino bene, poi prenderanno dalla vita quello che darà. Io sono contento che giochino a calcio: dà valori importanti, rispetto al mondo in cui vivono i ragazzi. Il calcio è democratico: vai avanti se sei bravo, a prescindere dal cognome. E impari a vincere e a perdere”.

Scusi, le luci di Marsiglia?
“Dissi subito che la squalifica del Milan dalle coppe era equa. L’Italia è un paese che non sa perdere: se perdi, sei un uomo che vale zero. Dopo la sconfitta nella finale di Istanbul 2005 giocata benissimo, due ragazzini all’aeroporto pretendevano le scuse!”.

Lo strascico fu il suo addio con contestazione, a San Siro. 
“Meglio così: quella giornata ha mostrato il mio distacco totale da quelle persone”.

La schiavitù alla tv è inevitabile?
“Sì, anche se le notturne e gli stadi inospitali allontanano i tifosi. E i campi sono un rischio per giocatori e spettacolo. Il calcio italiano non ha più alibi: dovremo organizzare un altro Mondiale, per metterci al passo con l’Europa?”. 

Platini vuole il campionato d’estate.
“Io sono più per due soste durante la stagione: il numero d’infortuni dimostra che il calendario è insostenibile”.

Dice anche che i calciatori guadagnano troppo.
“Gli stipendi li fa il mercato. Quella sui miliardari è demagogia: i punti contestati dall’Aic erano sacrosanti. Il trasferimento coatto, ma stiamo scherzando? Ci sono presidenti un po’ particolari sul piano della moralità, fanno mobbing. E il presidente di Lega Beretta non mi è piaciuto”.

Però la strada dei nuovi contratti è aperta.
“Io non avrei mai firmato il contratto di Chiellini con la Juve. Il club decide se un professionista può andare in discoteca o come si deve vestire?”.

La Nazionale lasciata un Mondiale prima del trionfo?
“Sono fiero dei miei record col Milan e con la Nazionale, ma avrei preferito un addio diverso dalla Corea”.

L’arresto dell’arbitro Moreno per droga?
“Il rifiuto della stretta di mano a un mio compagno e del dialogo in spagnolo mi avevano dato subito da pensare. Ora i dubbi si sono accentuati”.

Si ammainano le ultime bandiere, Totti e Del Piero. 
“Sono stato al Milan dai 10 ai 41 anni. Sarà sempre più difficile vedere storie come la mia. Una volta sarebbero stati impossibili anche gli scambi tra Inter e Milan”. 

https://www.repubblica.it/sport/calcio/serie-a/milan/2011/01/12/news/maldini_aspetta_milan-11123749/?refresh_ce

La nuova vita di Maldini lontano dal Milan sarà testimonial dell’ Italia

MILANO Ha fatto boxe, il papà a tempo pieno, le partite di calcio con gli amici sull’ erba sintetica di un campo amatoriale e il tifoso milanista a San Siro. Ma l’ autentico anno sabbatico di Paolo Maldini sta per finire. Era cominciato il 31 maggio 2009 a Firenze, con l’ addio a 41 anni, dopo 25 stagioni da calciatore. Si concluderà il prossimo 28 maggio a Nyon, in Svizzera, dove l’ ex capitano del Milan e della Nazionale sarà il testimonial della candidatura italiana per Euro 2016. Anche se il compito per ora è di sostanziale rappresentanza e senza contratto, la prima uscita ufficiale dopo il ritiro significa che ormai è pronto per rientrare da protagonista. Se lo contendono la Figc, che ha il vantaggio di battezzarlo al futuro in giaccae cravatta, il Milan, che può fare leva sul senso di appartenenza per plasmarlo dirigente, e l’ Uefa di Platini. Un mese fa il presidente federale Abete e il vicepresidente Albertini, amico ed ex compagno di squadra di Maldini, lo avevano individuato come ambasciatore ideale, nell’ atto finale della sfida con Francia e Turchia per l’ assegnazione dell’ Europeo 2016. Ieri l’ ex difensore azzurro (126 presenze, dietro le 132 di Cannavaro) ha detto sì: è un simbolo del calcio italiano, si muove con disinvoltura sotto i riflettori, ha un ottimo eloquio, anche in inglese, e un prestigio internazionale per nulla scalfito dalla recente vicenda giudiziaria per presunta corruzione legata a controlli fiscali. A Nyon un suo breve discorso accompagnerà il dossier della Figc, già visionato favorevolmente dall’ Uefa. L’ ostacolo alla candidatura, più della legge sui nuovi stadi in via di approvazione (ma forse non entro il 28), è la forza politica della Francia: si temono manovre per fare convergere voti sulla Turchia e tagliare fuori l’ Italia. In ogni caso a questa prima esperienza potrebbe seguire un impegno più consistente di Maldini nell’ eventuale organizzazione dell’ Europeo o nello staff federale, con un ruolo da definire ma sicuramente non di secondo piano. Scartata l’ idea di fare l’ allenatore o il direttore tecnico in Nazionale o al Milan (che gli aveva proposto anche un incarico di guida del settore giovanile, ottenendo un rifiuto), l’ ex fuoriclasse attende l’ imminente rinnovo dei quadri tecnici rossoneri e azzurri. Berlusconi oscilla tra Filippo Galli, Tassotti, Van Basten e Allegri, ma sa benissimo che, a prescindere dal nome del nuovo allenatore scelto al posto di Leonardo, il club non può temporeggiare troppo, se non vuole perdere il suo antico capitano. Abete aspetta il via libera della Fiorentina, per contattare Prandelli come successore di Lippi, osserva la situazione alla Roma (Ranieri è l’ altro naturale candidato ct) e si tiene di riserva la soluzione Sacchi: magari con Zola come vice e proprio con Maldini come uomo nuovo della Figc.

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/05/08/la-nuova-vita-di-maldini-lontano-dal.html?ref=search

Maldini amaro: «Che brutto il silenzio del Milan»

IL CAPITANO ROSSONERO CONTESTATO DAGLI ULTRÀ

Maldini amaro: «Che brutto il silenzio del Milan»

«La società non si è ancora dissociata, pensavo che un suo atto pubblico fosse dovuto»

Paolo Maldini, quello che è accaduto domenica, in occa­sione del suo addio a San Si­ro, è davvero stupefacente.
«In effetti. Uno pensa di ave­re visto tutto e invece…».

Amareggiato? 
«È stata una domenica sur­reale. Così bella all’inizio, con lo stadio pieno. Davvero stu­pendo. Poi però c’è stata quel­la bravata di 100-200 persone che non va sopravvalutata ma che non deve neppure passare sotto silenzio. Io ho sbagliato, ho offeso i contestatori con un gesto istintivo e tante parolac­ce. Me ne assumo la responsa­bilità. Però l’ho fatto per reagi­re contro una cosa organizza­ta, preparata e pensata senza che io potessi rispondere. Pur­troppo, questo è il calcio in Ita­lia ».

Lei non ha un grande fee­ling con gli ultrà.
«È vero. Non ho mai cercato un rapporto con loro ma non l’ho fatto per snobismo. È che ho sempre puntato sulle mie forze, cercando di meritarmi tutto sul campo: il rispetto dei miei tifosi e quello del mondo del calcio. Per il cognome che porto mi sono sempre dovuto fare un mazzo così. Nessuno mi ha mai regalato niente».

Perché invece tanti calcia­tori hanno rapporti privile­giati con le curve?
«Ti avvicini a loro perché ti senti più protetto. Ti fanno i cori a favore, ti fanno gli stri­scioni. Ma sa qual è stata la persona che ha rafforzato le mie convinzioni? Franco Bare­si. Mi ripeteva: fai tutto in cam­po, non cercare aiuti esterni. Ero capitano da 6 mesi e già mi contestavano: Maldini non sei degno di essere capitano».

Ma cos’è successo esatta­mente tra lei e gli ultrà?
«Da quello che alcuni di lo­ro sono andati a dire in tv, io gli avrei dato dei pezzenti ma una parola del genere non ap­partiene al mio vocabolario. In tutti questi anni ci sono stati soltanto due motivi di frizio­ne. Nel 2005, di ritorno dalla fi­nale di Istanbul, all’aeroporto mi si avvicina uno di vent’an­ni e mi dice: ci dovete chiede­re scusa. Cosa? Io gioco da vent’anni e devo chiedere scu­sa a un ragazzino dopo una fi­nale perduta ma dominata sul piano dello spettacolo? Ma sia­mo matti?».

L’altro episodio? 
«Supercoppa europea di Montecarlo contro il Siviglia, nel 2007. In curva stavano tut­ti zitti, volevano picchiare chi provava a tifare. Non so cosa li spingesse a non tifare, se que­stioni economiche o di potere. Allora io, in un’intervista, dis­si: la squadra non è contenta, San Siro per il Milan è uno sta­dio magico ma sta perdendo la sua magia. Giancarlo, uno dei capi, dice che l’ho chiama­to per chiedere scusa ma non è vero: non ho neppure il suo numero di telefono. Abbiamo chiarito tutto un giorno: li ho incontrati per strada, è stato un confronto pacato».

Dopo quello che è succes­so non sarebbe il caso di un nuovo chiarimento?
«Io sono a posto così. Non devo chiarire niente con nessu­no ». 

Accetterebbe delle scuse? 
«Per carità. Le scuse non le voglio». 

Quali sono i messaggi di solidarietà che le hanno fatto più piacere?
«Esclusi quelli provenienti dal mio ambiente e dalla mia famiglia, e già facciamo un centinaio di persone, ne potrei citare tanti. Platini, che mi ha mandato una lettera bellissi­ma prima della partita; Frey, che mi ha detto che la festa me la fa lui domenica; De Biasi, un allenatore che conosco poco; Ciro Ferrara, che avrà avuto an­che i cavoli suoi; Fiorello, che è pure interista. E poi Stefano Borgonovo, Meneghin, Panca­ro, Javier Zanetti, Serena, Al­bertini… Comunque c’è un pa­radosso…». 

E quale sarebbe? 
«Lo striscione affettuoso che mi ha dedicato la curva dell’Inter nell’ultimo derby e quello di domenica della cur­va del Milan».

Ma è vero che ha litigato con Leonardo?
«Ridicolo. Lui mi ha detto in un orecchio di lasciare per­dere e io gli ho risposto che non ci pensavo nemmeno, che un uomo deve essere un uo­mo fino in fondo. Quando ci è stato riferito che secondo alcu­ni avremmo litigato, ci siamo messi a ridere».

Paolo, c’è ancora amarezza dentro di lei?
«Devo dire che, pur essen­do passate più di 48 ore da quell’episodio, la società non ha ancora preso posizione. Il Milan avrebbe anche potuto dissociarsi e invece non l’ha fatto».

Chi sarebbe dovuto interve­nire? Berlusconi? Galliani?
«Il presidente l’ho visto un minuto… Galliani gira con la scorta… Bastava un dirigente qualsiasi. Pensavo che una pre­sa di posizione pubblica fosse dovuta».

Alberto Costa 
27 maggio 2009

https://www.corriere.it/sport/09_maggio_27/costa_maldini_milan_db102c82-4a86-11de-90df-00144f02aabc.shtml

E Maldini annuncia: «Potrei smettere»

«Oggi avrei idea di chiudere, anche se sto bene. Vedremo quanto giocherò da qui a maggio»

Redazione – Mer, 22/11/2006 – 00:00commentanostro inviato ad Atene

Forse anche questo è un segno dei tempi bui del Milan. Paolo Maldini, assalito dai soliti acciacchi che lo tormentano (è costretto a convivere con l’Aulin per difendersi dai dolori al ginocchio sinistro), medita di lasciare a giugno prossimo. Secondo pronostico, verrebbe da aggiungere, perché la sorpresa sarebbe il contrario: se cioè decidesse di continuare, a 39 anni suonati, col calcio attivo dopo una carriera strepitosa, unica e indimenticabile. «Casco dalle nuvole, non ne so niente», commenta papà Cesare che da Milano risponde così alle richieste di conferme della scelta definitiva attribuita al figlio. I pensieri di questi giorni di Paolo, capitano rossonero con un super curriculum di successi, sconfitte e record (ieri sera giocata la partita 129 di coppa Campioni) finiti sui giornali danno vita a un dibattito nel quale interviene l’interessato, a poche ore dalla sfida di Atene. «Se mi metto a pensare ora, l’idea è quella di smettere ma non ho deciso né di smettere né di continuare. Anzi, ora gioco con continuità, sto bene, ho una grande voglia e volontà» le sue parole affidate a Milanchannel e rilanciate dal sito rossonero che contribuiscono a definire meglio i contorni della vicenda.
Paolo Maldini ha un barometro degli umori infilato nel ginocchio rimasto senza cartilagine: se avverte dolore si deprime e pensa di smettere, se no tira dritto. Su un aspetto è determinato: non vuole continuare galleggiando tra tribuna e panchina, vuole proseguire con un ruolo da protagonista. «A fine stagione valuterò sulla base di quanto avrò giocato e di come avrò giocato», fu la sua frase affidata ai lettori de il Giornale nella settimana del derby. E da quella non si è granché scostato. Nel frattempo dopo gli infortuni di Nesta e Kaladze, Ancelotti l’ha richiamato in prima linea. E lui s’è rimesso l’armatura.

http://www.ilgiornale.it/news/e-maldini-annuncia-potrei-smettere.html

Diabolico Milan, lancia Maldini cannoniere

Sfatati tutti i tabù. Tutti tranne uno. Cominciamo dal primo: sotto il diluvio universale il Milan è capace di giocare al calcio, bene, e di vincere, comodamente. Al di là dello stesso risultato, stretto nelle dimensioni e non rispondente alle occasioni in numero industriale sciupate. Onore e merito allo stadio di San Siro, capace di regalare un prato perfetto nonostante l’alluvione del pomeriggio abbattutasi su Milano e i suoi dintorni. Secondo tabù: il Milan non vince e non segna solo con i due attaccanti baciati da Eupalla, Shevchenko e Kakà cioè. Se per caso l’ucraino si prende un pomeriggio di permesso sindacale e se il brasiliano si gode il meritato riposo in panchina, è possibile che provveda alla bisogna quel campione sceso dal piedistallo che si chiama Paolo Maldini. Gioca in condizioni impossibili: non ha più cartilagine nelle due ginocchia, deve imbottirsi di Aulin per vincere i dolori e le infiammazioni che lo costringono spesso a restare a casa, col ghiaccio a portata di mano. Solo uno come lui, esponente di una razza specialissima, può regalare in pochi giorni, tra Gelsenckirchen e San Siro, la sua striscia di performance: in Germania firmò la discesa con cross di destro per la testa di Sheva, qui a San Siro in 15 minuti di tempo chiude la sfida con la Reggina grazie a un mirabile uno-due. Nel primo caso va in gol di destro, dopo un paio di tunnel sui rivali che gli si fanno incontro, nel secondo, di testa, su angolo di Rui Costa, infligge una capocciata a centro porta che il portiere Pavarini vede come una folgore, un fulmine, una saetta. Peccato per i curvaioli rossoneri, rimasti, per protesta fuori dallo stadio durante tutto il primo tempo, si perdono il meglio: striscioni e cori segnalano il loro dissenso nei confronti del decreto Pisanu e del caro prezzi. Per il primo sbagliano, per il secondo lamento legittimo. Ci sono prezzi vergognosi in giro.
Il terzo tabù può far felice Galliani e Braida e segnalare il ritardo con cui Ancelotti accompagna al debutto stagionale in campionato Vogel, il capitano della nazionale svizzera. Gioca al posto di Pirlo con grande sicurezza ed efficacia: è lo scudo protettivo di cui ha bisogno la difesa milanista, maltrattata persino da Cavalli, a causa della insicurezza di qualche esponente, Dida tra i primi. Senza Pirlo, lo ricordate?, l’anno prima il Milan attraversò momenti di grande difficoltà: Galliani, a Reggio Calabria, fu costretto a un intervento pubblico per evitare che si ripetesse l’esperimento Ambrosini. Ancelotti lo scopre con qualche settimana di ritardo ma è un peccato veniale. Tutti i tabù sfatati tranne uno. La fragilità difensiva del Milan non è un luogo comune, è un segno dei tempi e una conseguenza diretta del disegno tattico. Ma c’è dell’altro. Panico e insicurezza del portiere stanno minando alla base quel reparto che resiste meglio se Stam gioca a destra. Come può una difesa di quel livello tecnico subire gol, a partita ormai conclusa, in contropiede dalla Reggina, in casa? Non può, naturalmente. È segno di disattenzione e di mancanza di rigore tattico: sono difetti che si coltivano spesso nel giardino dei presuntuosi. E come si capisce al volo, non cambia granché se Cafu resta a guardare. Nel primo tempo Cavalli si mangia un gol, un altro lo segna in fuorigioco prima di finire, durante il recupero, nel tabellino dei marcatori. Forse è il caso di lavorare sodo nella sosta azzurra per smerigliare l’intesa e rassicurare il portiere. Dopo sei partite, il Milan è lo stesso, nei punti fatti e nei gol segnati e subiti, di un torneo fa. Segno allora che può risalire la china. Ma deve chiudere il portone con un lucchetto. Non riesce a scaldare il cuore dei nuovi tifosi, Bobo Vieri. Tutto il Milan, nella ripresa, gioca per lui, lo lancia, gli serve assist a ripetizione, cerca il suo gol per spezzare l’incantesimo. Per fare questo, che sa di squadra provinciale, dimentica di chiudere col 3 a 0 meritato in tante, troppe circostanze.
La Reggina ha un problema: ceduto Bonazzoli, perso Bianchi, deve inventare Cavalli attaccante. Ne cerca uno in Portogallo.

http://www.ilgiornale.it/news/diabolico-milan-lancia-maldini-cannoniere.html